Non è una domanda retorica. Non lo è nelle mie intenzioni, anche se confesso di sentirmi profondamente a
disagio di fronte a quella che, ormai da più parti, viene vissuta più come una
richiesta da parte dei dirigenti che non come un’effettiva esigenza dei
docenti.
Nutro da sempre grosse perplessità
riguardo a queste prove, che per almeno un motivo apparento ai compiti a casa; ritengo
entrambi profondamente classisti e settari.
Tutti sappiamo bene che, in
modo più o meno evidente, confermeranno ciò che già immaginiamo: i bambini più
sicuri, capaci e competenti, nonché i più seguiti nel lavoro a casa, otterrebbero
ottimi risultati, mentre quelli maggiormente in difficoltà, perché più
immaturi, o provenienti da un ambiente socioculturale svantaggiato, difficilmente potrebbero dimostrare di aver consolidato o maturato le proprie competenze durante la pausa estiva.
A che servono, dunque? A
confermare un pregiudizio?
Io non credo nella scuola
dei pregiudizi, e soprattutto non credo in una scuola che chiede a tutti di
rispondere a identiche richieste, quando sappiamo benissimo quanto siano
condizionanti le situazioni pregresse individuali.
Credo piuttosto nell’utilità
di un ripasso collettivo e mirato dei diversi argomenti, nel lavoro a coppie e
a piccoli gruppi, in cui chi è più capace mette le proprie competenze in aiuto
di chi ancora fatica; credo nel bisogno e nell’importanza di un inizio sereno, in
cui raccontare, raccontarsi, ascoltare, ricominciare a condividere parti
piccole o grandi di noi e della nostra vita; credo nel valore dell’aiuto
reciproco, senza competizione e, il più possibile e almeno
all’inizio, senza voti (sappiamo bene che i test d’ingresso non dovrebbero
essere valutati, ma siamo sicuri che questa regola valga davvero per tutti? E quanto ci condizionerebbero, comunque, quei risultati, nel processo di valutazione e nelle aspettative verso ogni alunno?).
E allora, preferisco usare
il tempo a disposizione perché i ragazzi, soprattutto quelli che durante l’estate
non l’hanno fatto, ricomincino a condividere, a leggere, a scrivere, a parlare tra di loro una
lingua comune.
Questa è la scuola in cui
credo, e finché qualcuno non mi dimostrerà il contrario, non mi pare che le
servano i test d’ingresso.
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