CUSHLAMOCHREE!
Da qualche giorno, questa parola mi ossessiona.
L’ho scoperta sull’ultimo
Linus: anticipata dall’editoriale di Igort e raccontata da Chris Ware
nell’articolo Crockett Johnson e la linea chiara, dal primo istante in cui l’ho letta CUSHLAMOCHREE! ha cominciato a interrogarmi.
Perché non riuscivo a
togliermela dalla mente? Perché mi faceva sentire, fortissimo, il desiderio di scriverne?
Forse per via della sua quasi
intraducibilità* nella lingua italiana (Igort scrive: “[…] Cosa vuol dire cushlamochree? Battito del mio cuore.
Questo vuol dire, accidenti.”). Forse per il suo suono: sono particolarmente
sensibile all’effetto che le parole producono alle mie orecchie, oserei dire
sotto pelle, tanto che, a volte, mi ritrovo a sussurrarle, mentre leggo
silenziosamente. Le sussurro -le provo, direi-, e mi immagino il loro effetto
sui volti delle bambine e dei bambini che dalla mia voce le ascolteranno (si
smette mai di essere maestri?). Forse perché, come scrive Chris Ware, in Barnaby,
protagonista dell’omonima striscia di Crockett Johnson, è immediatamente
riconoscibile quell’Harold che, con la sua matita viola, disegna il mondo, lo
interpreta e lo piega al suo volere.
Quello stesso Harold che le mie alunne, i
miei alunni e io conosciamo fin da quando insegnavo alla scuola dell’infanzia.
CUSHLAMOCHREE!
mi
pare abbia il suono dei tentativi, finanche maldestri, che ognuno di noi compie
per affermare se stesso e la propria identità in relazione agli altri, nella misura in cui gli altri lo vedono e credono in lui; qui, in
particolare, in relazione a un bambino che, come Calvin, non smette per un solo
istante di credere nel sogno e nella fantasia. E se io, piccina, non ho avuto
accesso a libri d’autore o alla cultura “alta”, so però con assoluta certezza
di aver incontrato, come Barnaby, Fate Madrine -e Fati Padrini- che mi hanno
permesso, nonostante un’infanzia molto semplice e sicuramente non benestante,
di poter sempre contare sulle storie e sui libri: li ho avuti con me da piccola
e ho continuato a incontrarli nel corso della mia vita, cercandoli come un assetato
cerca l’acqua.
Forse solo in questo modo ho
potuto realizzare quel che altrimenti avrei potuto soltanto immaginare.
Ci sono molte cose che fin dall’infanzia non so, e che
fin dall’infanzia so di non sapere.
Ma a volte penso che sia meglio così: perché davvero non
finirò mai di scoprire, e di imparare.
*A proposito di intraducibilità: Lost in translation
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