mercoledì 30 gennaio 2019

Il quaderno della lentezza




















Il quaderno della lentezza non è una novità.

L’ho inaugurato qualche anno fa, consapevole della necessità, mia, delle bambine e dei bambini di rallentare, di riprendere, almeno qualche volta, un ritmo diverso, più quieto, forse più rispettoso delle necessità di alcuni di noi. È durato una sola stagione, ma me lo sono tenuto stretto nei ricordi.

Ho ripensato al quaderno della lentezza proprio in questi giorni, in cui sto preparando i quaderni per cominciare a conoscere, a scrivere e a leggere prima lo stampato minuscolo, poi, quando sarà il momento, il corsivo.

È strano anche per me, adulta, insegnante, passare da un rigo all’altro: i primi mesi le righe di quinta col margine ci hanno permesso di non fare troppa fatica col maiuscolo, adeguando l’altezza del carattere alla riga e trovando la giusta larghezza per le lettere. Ora serve fare uno sforzo in più, rimpicciolire, adeguare a seconda delle lettere, trovare nuove strategie.

Ho impostato i quaderni di tutti a matita.

Avrei potuto, certo, preparare delle schede. Ma mi è sembrato che il mio lavoro sul loro quaderno avesse un valore diverso: la maestra ha scritto, con la matita HB, un quaderno alla volta, talvolta cancellando, in modo non sempre preciso ma cercando di essere più accurata possibile. L’ho fatto lentamente, senza fretta, a più riprese.

Forse in questo modo sarà più facile, per loro: il confronto non è con la perfezione di un carattere stampato da una macchina, ma con l’imperfezione di una scrittura che fa i conti con la stanchezza, la luce, l’imprecisione della vista.

Mi pare che l’umanità e il rispetto delle differenze possano passare anche da qui.
E chissà di quanta bellezza e unicità potrà arricchirsi questo quaderno, insieme a noi, nei prossimi mesi.




E a proposito di lentezza, una lettura imperdibile La pedagogia della lumaca di Gianfranco Zavalloni, Emi. 

domenica 27 gennaio 2019

Io sto con Vanessa


Un libro senza parole.
Un libro senza parole arrivato in dono alla maestra in un paese speciale, in un’occasione speciale, da colleghe speciali.
Un libro senza parole per scoprire e gustare insieme, in silenzio, le immagini.
Un libro senza parole da rileggere una seconda volta, aggiungendo le parole e raccontando noi la storia, come siamo capaci. Una storia che ognuno porterà a casa, appiccicata sul quaderno, per poterla rileggere con un grande.
Un libro senza parole con la copertina nascosta, per provare a indovinarne il titolo.
Un libro senza parole per riflettere in modo semplice e concreto sull’esclusione, la solitudine, e il potere dei piccoli gesti che cambiano il mondo.
Un libro senza parole per cominciare fin da piccoli a fare Memoria. Quella stessa Memoria che occorre fare ogni giorno.
E per la maestra, una domanda in più: quale fortissima empatia scatta, nella mente di un bambino di sei anni, da fargli esclamare, di fronte all’immagine del “bullo” ormai rimasto solo “Povero bullo!” , e che fa il paio con la domanda finale nell'altra classe: "Ma dov'è finito quel bambino arrabbiato?"?
(La parola bullo è uscita dalla bocca di un bambino, in una delle due classi, durante il racconto)






IO STO CON VANESSA
(BAMBINI E BAMBINE RACCONTANO LA STORIA DI UN LIBRO SENZA PAROLE)


LA MAESTRA STAVA DICENDO AI BAMBINI: “BAMBINI, C’È UN’ALUNNA NUOVA”.
POI DICE: “BAMBINI, SCRIVIAMO”.
UNA BAMBINA ALZA LA MANO.
GLI ALTRI GIOCANO, SOLO CHE LA BAMBINA NUOVA NON HA UN’AMICA, QUINDI NON SA CON CHI GIOCARE.
TUTTI I BAMBINI ESCONO DALLA SCUOLA. UN SACCO DI BAMBINI.
PERÒ LA BAMBINA NUOVA ESCE ANCORA TRISTE DALLA SCUOLA.
LA BAMBINA NON HA NESSUN’AMICA, PER CUI NON PARLA CON NESSUNO.
QUEL BAMBINO STA TRATTANDO MALE LA BAMBINA NUOVA. LUI SI È ARRABBIATO CON LEI. FORSE STA DICENDO: “EHI, TE, VATTENE DALLA MIA SCUOLA, È SOLO MIA.” LA BAMBINA HA DETTO UNA COSA SBAGLIATA.
LA BAMBINA PIANGE PERCHÉ IL BAMBINO SI È ARRABBIATO CON LEI.
ADESSO LA BAMBINA È TRISTE PERCHÉ IL BAMBINO L’HA TRATTATA MALE. UNA BAMBINA LA STA GUARDANDO E DOPO UN PO’ ALLA FINE È UN PO’ TRISTE PERCHÉ LA BAMBINA NUOVA È STATA SGRIDATA.
POI LA BAMBINA CORRE A CASA TRISTE, E L’ALTRA BAMBINA È DALL’ALTRA PARTE A GUARDARLA.
POI LÀ C’È UN GRUPPO DI AMICHETTI, E LA BAMBINA COL VESTITO GIALLO GLI CORRE A DIRE CHE LA BAMBINA È TRISTE E CHE BISOGNA ANDARE A FARLE COMPAGNIA COME AMICI, E ALLORA SONO TRISTI ANCHE LORO.
LA BAMBINA COL VESTITO GIALLO VA A CASA, ENTRA, POI VA A GIOCARE CON I SUOI FRATELLI E SORELLE, VA A LETTO, SCENDE E STA GUARDANDO DALLA FINESTRA. (PERÒ PRIMA METTE IL PIGIAMA).
DALLA FINESTRA VEDE LA NUOVA COMPAGNA. LA CASA DELLA BAMBINA NUOVA E LA CASA SUA SI VEDONO ENTRAMBE.
STA DORMENDO, SI SVEGLIA, SI PREPARA, FA COLAZIONE. LE È VENUTA UN’IDEA.
STA USCENDO DI CASA E STA CORRENDO PER ANDARE A SCUOLA. È IN RITARDO.
È ANDATA A CHIAMARE LA SUA AMICA PER ANDARE A SCUOLA INSIEME.
STANNO FACENDO AMICIZIA. SI DANNO LA MANO.
STANNO ANDANDO ANCHE LORO A SCUOLA.
LA BAMBINA COL VESTITO GIALLO CHIEDE A UN ALTRO SE VUOLE ESSERE AMICO DELLA NUOVA COMPAGNA E ANDARE A SCUOLA INSIEME, E ADESSO STANNO DIVENTANDO TUTTI AMICI DELLA BAMBINA NUOVA.
SONO ARRIVATI UN SACCO DI BAMBINI E SONO TUTTI AMICI, PERCHÉ LORO VANNO TUTTI INSIEME A SCUOLA.
IL BAMBINO CHE PRIMA ERA ARRABBIATO CON LA BAMBINA NUOVA ORA NON È PIÙ ARRABBIATO, PERCHÉ TUTTI I BAMBINI VOLEVANO ESSERE AMICI DELLA BAMBINA NUOVA, E SE NO LUI POI RIMANEVA DA SOLO.
IL BAMBINO HA LA FACCIA TUTTA ROSSA, PERCHÉ TUTTI STANNO ANDANDO A SCUOLA CON LA BAMBINA NUOVA, E LUI SI VERGOGNA.
TUTTI SEGUONO LE DUE BAMBINE E ENTRANO IN CLASSE. IL BAMBINO È ARRABBIATO, TANTO ARRABBIATO.
POI STANNO MANGIANDO TUTTI INSIEME.
MA DOV’È FINITO QUEL BAMBINO ARRABBIATO?


È ARRIVATA UNA NUOVA BAMBINA E L’ALTRA BAMBINA ALZA LA MANO PER CHIEDERLE COME SI CHIAMA, E POI QUANDO C’È LA MERENDA TUTTI VANNO FUORI A GIOCARE E LA BAMBINA NUOVA, VISTO CHE NON HA AMICI, È SEDUTA SULLA PANCHINA.
TUTTI STANNO ANDANDO A CASA INSIEME, E LEI È DA SOLA.
LEI SI SENTE SOLA PERCHÉ NON HA NESSUN AMICO IN CLASSE, NON HA MAI GIOCATO CON NESSUNO E ALLORA SI SENTE UN POCHINO DA SOLA.
LA BAMBINA STA TORNANDO A CASA E POI È ARRIVATO UN BAMBINO CHE L’HA SGRIDATA E LE HA DETTO: “EHI, TU, CHE COSA CI FAI QUI?”
GLI DICE DI ANDARE VIA PERCHÉ È ARRABBIATO.
HA INCONTRATO UN BULLO.
LA BAMBINA NUOVA RITORNA A CASA, TRISTE E SOLA.
PRIMA VA VIA IL BULLO SORRIDENDO E POI LEI SI SENTE DA SOLA E SCAPPA A CASA CHE PIANGE.
C’È ANCHE UNA BAMBINA COL VESTITO GIALLO CHE SI ACCORGE CHE LEI È TRISTE E SOLA CHE PIANGE.
LA BAMBINA NUOVA ENTRA IN CASA E TUTTI GLI ALTRI VANNO A CASA LORO.
LA BAMBINA COL VESTITO GIALLO LA GUARDA MENTRE STA PER ENTRARE IN CASA, POI PARLA COI SUOI AMICI E TUTTI VANNO A CASA TRISTI.
LA BAMBINA COL VESTITO GIALLO ENTRA IN CASA, VA SUL LETTO E GUARDA FUORI DALLA FINESTRA.
VEDE CHE SI È FATTO BUIO E SI È MESSO A PIOVERE, E DA LONTANO VEDE CHE LA BAMBINA NUOVA STA PER DORMIRE TRISTE E STA QUASI PER PIANGERE.
LA MATTINA DOPO LA BAMBINA CON IL VESTITO GIALLO SI VEGLIA, SI RICORDA DELLA BAMBINA TRISTE, ESCE DI CASA DI FRETTA E VA A CASA DELLA BAMBINA NUOVA.
BUSSA E LE DICE SE VUOLE DIVENTARE SUA AMICA E ANDARE A SCUOLA INSIEME A LEI.
TUTTI VANNO A SCUOLA INSIEME ALLA BAMBINA NUOVA CHE PRIMA ERA TRISTE, E ADESSO È FELICE PERCHÉ VA A SCUOLA CON I SUOI COMPAGNI NUOVI.
LORO DIVENTANO AMICI.
ARRIVA TUTTA LA GENTE DELLA SCUOLA E TUTTI VOGLIONO DIVENTARE SUOI AMICI.
C’È ANCHE IL BULLO, FA LA FACCIA CON LE GUANCE ROSSE.
SI CHIEDE: “MA COSA STA SUCCEDENDO?”
IL BULLO CON LA FACCIA TUTTA ROSSA È IMBARAZZATO, E SI VERGOGNA PERCHÉ NON VUOLE PIÙ FARE QUELLO CHE HA FATTO. ORA LUI NON HA PIÙ AMICI (POVERO BULLO!).
TUTTI GLI ALTRI ENTRANO A SCUOLA.

venerdì 25 gennaio 2019

Una banda con le bende, ovvero Prime frasi

Sono passati ormai quasi cinque mesi dall’inizio della scuola.

Dopo tanti anni, ancora mi stupisce quella sorta di magia che avvolge l’apprendimento della lettura e della scrittura: non è solo tecnica, automatismo (quello stesso automatismo che per qualche bambino, purtroppo, è una conquista non priva di difficoltà). Leggere, scrivere, rappresentano davvero la possibilità di mettere insieme dei piccoli segni, fino a poco tempo prima sconosciuti e insignificanti, per creare le infinite possibilità della parola scritta.

Lavorare insieme mi pare sempre il modo migliore per imparare: in questo modo, le competenze di tutti vengono condivise e asservite all’apprendimento comune. I doni, posti sulla tavola che si imbandisce e a cui tutti prendono posto, vengono fatti fruttare e moltiplicati, in un novello miracolo che ricorda quello evangelico dei pani e dei pesci.

Passiamo insieme una parte del pomeriggio del venerdì (siamo stanchi, e stoltamente mi aspetto che i bambini lo siano ancor di più di noi adulti), cercando parole che inizino o contengano B (la nostra ultima consonante) e che si possano scrivere solo con le lettere che tutti conosciamo.

Mi piace sempre che tutti intervengano, che nessuno alzi per la seconda volta la mano prima che anche gli altri l’abbiano alzata. Certo, le competenze e i bagagli lessicali sono davvero profondamente diversi, per una svariata serie di motivi; ma dove c’è chi ancora fatica, si può dare un consiglio, un suggerimento (Pensa al mare, alla spiaggia oppure Ti ricordi come si chiama quell’aria grigia che talvolta, d’inverno, copre e nasconde tutto?).





Dopo una trentina di parole, dico che possiamo fermarci: a stupirmi è il NO di molti tra bambine e bambini. Non sono stanchi? Hanno ancora voglia di scrivere?

L’atmosfera è tranquilla, facciamo un lavoro quieto che, sappiamo, utilizzeremo nei giorni successivi. E forse questo basta a spiegare il desiderio di continuare.

Così, il lunedì successivo, sempre insieme, utilizziamo alcune di quelle stesse parole per scrivere le nostre prime frasi. Badiamo che non siano troppo complesse, ma non ci facciamo spaventare dalla presenza di alcune lettere che ancora non abbiamo studiato insieme, e che molti ormai conoscono (È l’iniziale del mio nome – T come tuono).




Scriviamo insieme: qualcuno già da solo, altri controllando talvolta la lim, altri ancora copiando ogni parola. Va benissimo così: non siamo tutti uguali, non abbiamo tutti lo stesso ritmo: l’importante è saperlo e continuare a camminare il più possibile vicini, e insieme.

Compaiono balene che nuotano nel mare (no, nell’oceano – ma nel mare presenta meno difficoltà), babbi che bevono birre, alberi all’aperto, bambini amici e bolle di sapone.

Ma è nel lavoro a coppie che il pensiero bambino è davvero libero di esprimersi: così

Un mandarino si fa sbucciare da un bambino.

Bella aria è fresca.

L’albero serve per fare la carta.

Il ranocchio bacia la principessa.

Nella borsa si mettono le cose.

La sabbia brucia.

Al bar si beve il caffè.

Babbo sei bello da guardare.







E poi ci sono quelle meravigliose successioni di parole, talvolta ricche di rime o assonanze, (Sabbia sul mare, I numeri 123, Un cuore nel nostro amore, Birilli badabum, e la mia preferita, Una banda con le bende) che non possiamo definire frasi, perché manca il verbo.

Ma di questo ci occuperemo a breve...


lunedì 21 gennaio 2019

Nonni, genere e grammatica


Nei giorni delle vacanze natalizie, ho letto il bel saggio di Marnie Campagnaro e Marco Dallari, Incanto e racconto nel labirinto delle figure Albi illustrati e relazione educativa (Erickson 2014), da troppo tempo sul mio scaffale, e a cui purtroppo non ha giovato la scelta editoriale di una grafica in bianco e nero, con un’appendice a colori delle immagini distribuite tra le pagine.



È stata davvero un’ottima lettura. Vi ho trovato analisi attente e lucide, linee educative condivise, e, tra i molti suggerimenti bibliografici, uno spendibile nell’immediato.

Siamo rientrati dalle vacanze con la N di Natale, e di nascita. Così mi è sembrato bello proseguire con la N di nonni, che con il Natale, e la nascita, hanno molti e strettissimi legami.




L’albo di Chema Heras e Rosa Osuna, Nonni (Kalandraka 2010) narra un amore che fa i conti con gli anni, la fatica, gli acciacchi, ma che non smette di guardare l’altro con tenerezza e poesia.

Nonno Mario vuole a tutti i costi portare nonna Maria al ballo in piazza; e ci riuscirà, nonostante l’iniziale e ripetuta ritrosia di lei, proprio attraverso le parole che trasformano gli effetti della vecchiaia in similitudini capaci di suggestionare anche i più piccoli.

Sei bella come il sole,

con gli occhi tristi come le stelle della notte,

le ciglia corte come erba appena tagliata,

la pelle rugosa come le noci di una torta,

le labbra secche come sabbia del deserto,

i capelli bianchi come nuvole d’estate

e le gambe magre come quelle di una rondine.


Ma sbrigati, per favore, che dobbiamo andare a ballare!


Nonno Mario e nonna Maria, dunque. E sono proprio i bambini ad accorgersi che i due nomi sono uguali.
No, non sono uguali uguali, cambia la finale.
Mario Maria.

L’occasione è davvero troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire: così, in un’attività non programmata, ma che davvero risulta essere una riflessione sulla lingua divertente e significativa, chiedo a ogni bambino/bambina di alzarsi in piedi, dire il proprio nome, se maschile o femminile e provare a cambiarne il genere.

Con alcuni è facile: Christian diventa Cristiana, Martina si trasforma in Martino.

Altri rivelano nomi che per i bambini risultano sconosciuti, ma che noi adulti riveliamo possibili: Tommasina, Lorenza.

Alcuni, come Mattia, sono maschili anche se terminano con A.

E poi ci sono quelli che proprio non si possono trasformare: Eva, Matilde, Matteo, Aurora, Ginevra. I tentativi scatenano l’ilarità generale. E con i bambini che hanno nomi che arrivano da altri paesi? Bisogna chiedere ai genitori.

Nel frattempo, arriva il momento di passare ad una nuova consonante, la R, e mi ricordo di avere, tra gli ultimi acquisti, un albo appena letto che ci permetterà di ritrovare i nonni e scoprire un nuovo, misterioso personaggio: nientemeno che un rinofante…








venerdì 18 gennaio 2019

Dettato: un atto di fede


Credo nel dettato.

Ci credo allo stesso modo in cui credo nell’esercizio che migliora l’automatismo della lettura, nella frequentazione fisica e quotidiani di buoni libri, nel potere inclusivo e democratico della lettura ad alta voce e nella bellezza delle immagini, nella condivisione di abbracci e parole belle.
Credo nel dettato, anche se negli ultimi anni l’ho praticato meno di quanto avrei voluto, proprio per una sorta di istinto di protezione nei confronti di chi, da questa attività, sarebbe stato prepotentemente escluso, o in ogni caso messo in grave difficoltà. Probabilmente avrei dovuto trovare modalità alternative per potenziare l’ortografia che, da vecchia maestra, considero ancora, dove possibile, obiettivo prioritario. Non ci sono riuscita, ed è uno dei crucci che, a volte, mi tengono sveglia.
Nei giorni scorsi bambini e bambine si sono cimentati in un dettato con diversi livelli di complessità: da parole molto semplici (in genere bisillabe) a trisillabe e quadrisillabe, per giungere, alla fine, alle parole più difficili, contenenti consonanti doppie o le cosiddette “lettere ponte”.
Credo che meriti una riflessione a parte la modalità di correzione: ho chiesto ai bambini di scrivere solo sulla colonna di sinistra di pagine piegate a metà. In questo modo, la colonna di destra è rimasta a completa disposizione per la correzione, eseguita collettivamente in classe.
Ho segnato le parole errate con un (discreto) puntino azzurro a margine: tutte le parole sono state poi correttamente riscritte nelle colonne di destra, la cui lettura è stata assegnata come compito per casa.
Mi pare, in questo modo, di poter evitare l’enfatizzazione dell’errore e di permettere a tutti, anche ai bambini maggiormente in difficoltà, di confrontarsi, soprattutto in lettura, con la corretta scrittura di ogni parola.





 

(Le immagini sono tratte da tre quaderni diversi)

lunedì 14 gennaio 2019

Quando sono nato




 “Gli uccelli cantano, la luna è tranquilla lassù, il sole coi raggi scalda gli uccelli, la nuvola fa la pioggia sulla collina.”

(C., che aveva 6 anni e ora ne ha 11)



N come Natale, N come nascita.
Quale modo migliore, per iniziare il nuovo anno insieme alle bambine e ai bambini, che leggere Quando sono nato, Isabel Minhós Martins e Madalena Matoso(Topipittori 2009)?


Un fondo nero che valorizza i colori pieni delle immagini, parole che raccontano ai bambini esperienze sensoriali quotidiane in modo immediato ed efficace, ma allo stesso tempo poetico, una narrazione che si sviluppa come un canto che culla, e permette ai ricordi di riaffiorare.
Così, dopo la lettura ad alta voce, ho chiesto ad ognuno di completare il titolo del libro. Una sola condizione: che tutti completassero la frase.
Ho scritto le frasi di ogni bambino e di ogni bambina esattamente come sono state pronunciate, le ho stampate e fotocopiate; poi ognuno ha incollato la propria fotocopia sul quaderno, con il compito di leggerla con un grande (la mamma, il papà, il nonno, la nonna, lo zio, il cugino, la baby-sitter… è ormai diventata una sorta di filastrocca che continuamente si ripete, a ricordarci che la cura non è e non deve essere declinata esclusivamente al femminile, e non si identifica solo con la mamma) e sottolineare la propria frase.
In questo modo mi pare si possano ottenere due buoni risultati: documentare, anche per chi non c’era, tutto quel sommerso che costruisce, giorno dopo giorno, ora dopo ora, esperienza dopo esperienza, la scuola, e che, scrivevo tempo fa, il quaderno non racconta. E permettere ad ogni bambina, ad ogni bambino, di essere parte attiva della costruzione del processo di conoscenza attraverso la libera espressione del proprio pensiero, in quella che sempre, da sempre, mi sembra la forma più alta di democrazia.

QUANDO SONO NATO… / QUANDO SONO NATA…

RIMANEVO ATTACCATA A Orli. 
FACEVO PAURA ALLA MAMMA.

NON SAPEVO CHE AVEVO I CAPELLI IN ARIA.

NON POTEVO CAMMINARE.

NON POTEVO PRENDERE IL TELECOMANDO SUL DIVANO.

NON POTEVO USARE IL TELEFONO.

ERO APPICCICATA ALLA MAMMA E DOPO AL PAPÀ.

FACEVO GLI SCHERZETTI AL PAPÀ, ALCUNI CHE NON ME LI RICORDO, CREDO.

PER LA PRIMA VOLTA HO ASSAGGIATO IL LATTE DELLA MAMMA.

NON MI FACEVO DARE I BACETTI DA R.

HO SEMPRE DORMITO NEL LETTONE CON LA MAMMA E IL PAPÀ.

NON AVEVO ANCORA SCOPERTO IL MONDO.

HO SCOPERTO TANTI ODORI.

LA MAMMA MI AIUTAVA A ANDARE SUL PONY.

GIOCAVO CON I GIOCHI DA PICCOLI.

NON SAPEVO LEGGERE.

LA MAMMA MI ABBRACCIAVA.

SONO NATO ARRABBIATO.



MIO FRATELLO MI HA DATO UN PUPAZZO.
QUANDO PIANGEVO, MIO PAPÀ MI PRENDEVA IN BRACCIO.
QUANDO ASCOLTAVO LE CANZONI DAI NONNI, MI ADDORMENTAVO E IL NONNO MI PORTAVA SUL SUO LETTO.
NON SAPEVO CAMMINARE E MIO PAPÀ MI AIUTAVA.
PIANGEVO TANTO TANTO E LA MAMMA MI CONSOLAVA.
HO SCOPERTO CHE CI SONO LE COSE CALDE E FREDDE.
MI ARRAMPICAVO SUL DIVANO E PAPÀ MI AIUTAVA.
HO IMPARATO AD APRIRE GLI OCCHI.
HO SCOPERTO CHE ESISTEVANO I GENITORI.
ANDAVO A SBATTERE CONTRO TUTTE LE COSE.
MIO FRATELLO HA DESIDERATO UNA SORELLINA.
LO ZIO TEO MI PRENDEVA IN BRACCIO E MI FACEVA DORMIRE. SOLO LUI RIUSCIVA.
MIA ZIA MI FACEVA CAMMINARE VEDENDO IL CUCCHIAIO. MIO FRATELLO VENIVA CON ME A DORMIRE.
LA MAMMA MI PRENDEVA OGNI GIORNO IN BRACCIO E IO DORMIVO SEMPRE, A CAMMINARE, O MAGARI MI PRENDEVA
NON SAPEVO CHE ESISTEVANO LE BAMBOLE.

giovedì 10 gennaio 2019

Questo non è un metodo




A distanza di poco più di quattro mesi, si è sciolta quella sorta di pudore che mi impediva di parlare sul blog del saggio A scuola con gli albi Insegnare con la bellezza delle parole e delle immagini (Topipittori 2018); così ora pubblico, in questo post, l’introduzione, dal titolo Questo non è un metodo, in cui racconto le ragioni delle mie scelte educative e didattiche.





“Le parole sono importanti” affermava Nanni Moretti in un famoso film. Lo sono, credo, per tutti, e tanto più per chi ha fatto dell’educazione e/o dell’insegnamento una scelta di vita, e una professione.

Così, ci sono parole che non possiamo utilizzare con leggerezza, soprattutto se siamo insegnanti. Una di queste è metodo.

Metodo: procedimento messo in opera seguendo criteri sistematici in vista di uno scopo; complesso organico di regole, principi, criteri in base ai quali si svolge un'attività teorica o pratica (dal Sabatini Coletti)

Quando sento parlare di metodi, in educazione, mi chiedo sempre se davvero in campo educativo sia possibile rispettarne le condizioni; se, oggettivamente, la messa in opera di criteri sistematici, di un complesso organico di regole, principi, criteri, sia sufficiente per svolgere la propria attività e raggiungere uno scopo.
Non sto dicendo che seguire un metodo sia sbagliato, o che non funzioni; tuttavia, da più di trent’anni, ormai, sono abituata a fare i conti con tutte le infinite variabili che, in un modo o nell’altro, sono destinate a far fallire i metodi. O, per lo meno, a fare in modo che essi non siano efficaci per tutti.

Così, la mia affermazione “questo non è un metodo” non è tanto una giustificazione per gli inevitabili errori - in alcuni casi, purtroppo, addirittura fallimenti - di cui l'esperienza di un insegnante può essere costellata, ma, piuttosto, la consapevolezza che la mia proposta educativa e didattica si basa su continui aggiustamenti, correzioni, deviazioni, e che non rappresenta una ricetta infallibile destinata a sicuro successo.



E allora, cosa ci guadagnano i bambini?

Uno dei principi pedagogico-didattici che da sempre sostiene il mio “fare scuola” si fonda sul tentativo di mettere il bambino al centro del processo educativo; e non un’idea generica di bambino, ma ogni bambino reale che mi trovo di fronte. Invece ci troviamo sempre di fronte non IL bambino, ma un bambino, una bambina, e poi un altro, un’altra ancora, fino ad arrivare al numero complesso che compone la classe, o le classi, in cui lavoriamo.

Naturalmente, applicando questo principio, è di volta in volta il punto di vista - dell’insegnante, ma anche del bambino stesso, di ogni bambino - a dover cambiare.

Credo sia questo il nodo cruciale, il difficilissimo equilibrio a cui tendere; la posizione precaria e sempre in bilico dell’insegnante, ma soprattutto dei bambini, chiamati ad essere soggetti attivi e protagonisti del proprio processo di apprendimento, ma a cui viene richiesto anche di essere sempre più capaci di decentrarsi e di trovare via via un nuovo centro a seconda di ogni compagno, persona, gruppo, situazione o ambiente con cui entrano in relazione.

Si tratta di un equilibro instabile, di cui ogni volta è necessario trovare e ricalibrare il fulcro, il cosiddetto ago della bilancia. Non sempre ci si riesce, talvolta si assiste a cadute rovinose. Ma il lavoro dell’insegnante non prevede traguardi semplici: la sua bellezza sta nel complesso e articolato cammino percorso insieme.

Come scrive Franco Lorenzoni nel suo saggio I bambini pensano grande Cronaca di un’avventura pedagogica (Sellerio 2014), è proprio dentro quella che sembra una contraddizione, “frequentare il bello ovunque si trovi e procedere a tentoni” che possiamo permettere ad ogni bambino di crescere e apprendere nel rispetto di sé e degli altri, delle proprie competenze, dei propri tempi e stili d’apprendimento, con l’obiettivo alto di un avvio al pensiero personale e critico.

In questi primi trent’anni d’insegnamento ho individuato la sintesi più efficace e praticabile di questa prassi negli albi illustrati: lì dove le parole e le immagini concorrono a creare storie ispirate alla realtà o fantastiche, il bambino e l’adulto possono cercare e trovare bellezza, risposte e senso alle grandi domande che caratterizzano la crescita, l’apprendimento e, più in generale, la condizione umana, in quel “gioco di reciproco ascolto e di scambio che, quando s'innesca, sembra non avere fine.” (Franco Lorenzoni, op.cit.)




In questa pratica educativo-didattica, l’albo illustrato diventa quindi non solo il mezzo attraverso cui insegnare e imparare, ma un compagno con cui i bambini acquistano con il tempo sempre maggior dimestichezza, praticando prima l’ascolto, poi la lettura autonoma, acquisendo quella capacità di leggere parole e immagini che tanta parte avrà nella costruzione di competenze elevate, come osservare e interpretare la realtà che ci circonda nelle sue molteplici forme e manifestazioni, costruire un pensiero originale e critico, capace di confrontarsi costantemente con l’altro da sé.

Nel corso degli anni, i miei bambini ed io siamo cresciuti insieme ai libri: sia perché essi ci hanno accompagnato quasi in ogni istante del nostro cammino insieme, sia perché questo approccio ci ha permesso grandi spazi di riflessione condivisa. Poter leggere quotidianamente gli albi, libri che per loro struttura possono essere letti per intero nello spazio di un tempo breve, ha dato modo ai miei alunni di fruire di letteratura di qualità nella sua interezza. Non è mai necessario ridurre e/o adattare un albo; è invece sempre possibile leggerlo dall’inizio alla fine, nella completezza  con cui è stato concepito, scritto, illustrato. L’albo si presta inoltre, per sua natura, a una precoce e meditata lettura autonoma che i bambini sono invitati a praticare fin dalle prime settimane di scuola. L’albo non ha una data di scadenza: ne sono fruitori bambini e adulti, in un continuum che lo rende strumento prezioso e denso di significato e bellezza.

Apedario, il blog da cui questo volume è nato, è il diario illustrato della vita di due classi elementari nelle ore quotidiane di italiano e arte. La lettura di albi illustrati e libri per ragazzi è l'elemento fondante della mia attività didattica, ciò che permette il coinvolgimento attivo e continuo dei bambini, di tutti i bambini, attraverso la riflessione, la condivisione, la comprensione, la produzione scritta, la riflessione linguistica, l'ampliamento del lessico, tesi  al raggiungimento di benefici individuali e collettivi, e allo sviluppo del pensiero personale e critico di ognuno. L'apprendimento linguistico - la scrittura, il ragionamento, la lettura - è infatti al centro della mia didattica: strumento fondamentale destinato a reggere tutto il successivo impianto educativo e formativo, umano e professionale.




Apedario è nato molto tempo prima della sua apparizione ufficiale in forma di blog, il 20 aprile 2013. Da un paio d'anni aggiornavo una bibliografia per temi adatta ai primi anni della scuola primaria. Da qui, l'idea di scegliere alcuni personaggi degli albi illustrati per presentare le lettere dell'alfabeto, in un ordine diverso da quello conosciuto: nell'esperienza d'insegnamento nei cicli precedenti, avevo presentato prima la A, poi la P, poi la E, per permettere ai bambini di iniziare a formare subito sillabe e parole (APE, PAPA', PAPPA…). 
Prima di diventare un blog, per alcuni mesi Apedario è stato un progetto per un libro didattico. Tuttavia, la casa editrice cui a quei tempi lo proposi non gli attribuì abbastanza fiducia da dargli concretezza. Forse è stata questa la sua fortuna: essere costretto a nascere come blog, e come tale diffondersi, anche attraverso i social network, e in questo modo raggiungere un numero sempre più significativo di persone.


Scrivevo nel primo post del 20 aprile 2013: 
L'idea di questo progetto nasce dalla necessità di una didattica dell'italiano in classe prima (scuola primaria) strettamente connessa al vissuto del bambino tramite la lettura di albi illustrati per l'infanzia e la presentazione dell'alfabeto attraverso i rispettivi protagonisti. Ogni storia diventa quindi un magnifico pretesto per parlare della quotidianità, di storie fantastiche e suggestive, dei propri sentimenti, della relazione con i pari e con gli adulti, in una continua fruizione di letteratura di qualità e di una rappresentazione iconica che diventa stimolo per la creatività e la strutturazione di uno stile grafico-pittorico personale e non stereotipato.”.

Le attività di cui tratto in questo volume riguardano i primi tre anni di scuola primaria passati insieme.

Così, ora, posso rispondere alla domanda di prima: e allora, cosa ci guadagnano i bambini?

Un bambino a cui si leggano libri con costanza, continuità e passione, non è detto sviluppi automaticamente amore per la lettura; questo è una sorta di pensiero magico da cui io per prima dovrei liberarmi. Ogni bambino che abbia la fortuna di avere accanto un adulto che legge per lui guadagnerà però sicuramente uno sguardo attento, una mente pronta, una buona capacità di ascoltare e ragionare, una viva attenzione ai particolari, un linguaggio articolato, un lessico ricco, e, su tutto, la capacità di vedere le cose da molteplici punti di vista, e da molteplici punti di vista riflettere su di esse.