Sono solo le 6. E sono sveglia da almeno un’ora.
È un ultimo giorno uguale e
diverso da molti altri, questo. Per la terza volta, termino un ciclo alla scuola
primaria; quella stessa primaria verso cui ho accompagnato, con non pochi
timori, chissà quanti bambini, dalla scuola dell’infanzia, fino a 14 anni fa.
È un ultimo giorno in cui mi
sento, letteralmente, divisa in due. Sono due le classi che usciranno per l’ultima
volta dai due plessi in cui i miei colleghi e io insegniamo. Non potremo essere
contemporaneamente in entrambi i luoghi, anche se saremo fisicamente insieme
per tutto il resto della mattinata. E già so che, ovunque sarò alle 12.45, metà dei miei pensieri, e del mio cuore, saranno dall’altra parte.
Il tema dell’assenza, per un
insegnante, credo sia fortissimo, vitale. Le bambine, i bambini, le ragazze, i ragazzi,
sono, io credo, spesso addirittura più presenti dentro di noi quando non li
abbiamo davanti agli occhi. La loro assenza diventa una presenza costante, talvolta
invadente, che riempie i pensieri anche di momenti di vita che dovrebbero,
naturalmente, essere dedicati ad altro. Spesso senza sosta, l’assenza, più
della presenza, ti interroga, ti chiede ragione di decisioni, reazioni, valutazioni,
errori. E più spesso di quanto chi non è insegnante pensi, ti giudica.
Così, ancora una volta, mi
chiedo per quanto tempo sarà così. Per quanto tempo, impegnati a fare altro
-quell’innumerevole e non quantificabile altro che ci aspetta da qui al 30
giugno, per esempio, o durante quei due mesi di vacanza estivi che molti ci
invidiano, o a settembre, quando saremo impegnati a conoscere le nuove bambine e i nuovi bambini, che richiederanno tutta la nostra attenzione-
per quanto tempo, dicevo, impegnati a fare altro, avremo come un lampo,
un’illuminazione, o a volte piuttosto un sottofondo costante, e ci ritroveremo
a interrogarci sul futuro di quelle ragazze e quei ragazzi ormai non più
presenti davanti a noi.
Per quanto tempo ci sentiremo responsabili della loro
crescita, delle loro scelte, delle basi, solide o più fragili, che abbiamo -o
non abbiamo- saputo dare loro? Per quanto tempo li cercheremo, e riusciremo a ritrovarne
i lineamenti bambini, in mezzo ai gruppi di adolescenti all’entrata o all’uscita
di un mondo altro dal nostro? Per quanto tempo, come è successo in questi anni,
saranno i più fragili a imporsi sugli altri, in una sorta di compensazione a
quello che ha reso, fin da bambini, la loro vita un po’ più complicata?
Come sempre, domande senza
alcuna risposta. E, come sempre, la scrittura come cura.
Vado a scuola. È il nostro
ultimo giorno.
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