mercoledì 23 maggio 2018

Mercoledì al cubo - Come si legge un libro?


Come si legge un libro?

L’ho chiesto, senza aggiungere altro, due giorni fa su Facebook. 
Queste le prime risposte dei grandi:

Assaporandolo pagina dopo pagina...con calma senza ansia

1) accarezzare la copertina
2) sentire il profumo delle pagine
3) saltare all'ultima pagina e leggere il finale
4) immergersi nel libro e leggerlo tutto tutto ricordandosi del resto del mondo fino all'ultima pagina
5) leggere prefazione, presentazione dell'autore, ecc.ecc. tutto insomma
6) lasciare il libro in giro e di tanto in tanto aprire una pagina a caso e ricomincia re a leggere.
Almeno, io leggo così

Dimenticandosi di esserci, diventando il libro. Non so dirlo meglio di così.

...avvolgendosi nelle pagine, nelle righe e nelle parole...spegnendo il mondo caotico che ci circonda

Quando inizio a leggere non smetterei mai. E volo con la fantasia, fino alla fine a volte anche immaginando un diverso finale. Aspetto molto intrigante della lettura.

Non credo ci siano ricette.
Quando si raggiunge un libro è perché si cerca, si desidera qualcosa.
E ognuno lo fa a modo suo.

Ciò che conta non è il "come" ma il "cosa", fosse anche solo cercare una tregua, o il tentativo, seppure impacciato, di andare oltre se stessi.

Sdraiati. A pancia in su, poi sotto o di fianco con la testa appoggiata alla mano, ma rigorosamente allungati su qualsivoglia superficie

Leggendo la tua storia tra le righe.

Per riuscire a sentire la voce dell'autore...in silenzio!


Queste, invece, alcune tra le risposte delle mie e dei miei grandi, in questi ultimi giorni in cui ancora posso porre loro domande:

Ognuno può leggere un libro come vuole. Un libro si legge con i cinque sensi.

Un libro si legge aprendolo, leggendo un insieme di lettere che formano parole. Un libro si comincia a leggere dalla pagina 1 in su.

Dalla trama alla copertina al titolo, da sinistra a destra o da destra a sinistra, dall’alto in basso, dal basso all’alto, toccandolo, leggendolo in profondità, in superficie, seduti, in piedi, sdraiati…

Un libro si può leggere dalla copertina o dalla trama, saltando dentro qua e là oppure andando a leggere subito il finale. Il libro si può leggere dalle immagini almeno ti puoi mettere nei panni dei personaggi. Puoi leggere l’indice e innanzitutto scegliere uno che ti piace e non leggere una cosa che non ti piace perché se no ti annoi.

Un libro si legge lentamente fin quando vuoi e puoi decidere se leggerlo in mente o ad alta voce.

Sfogliando le pagine e devi immaginare quello che leggi. Se non hai fantasia, è difficile leggere un libro e diventa molto noioso.

Si legge da cima a fondo con delle interruzioni ogni tanto per immaginarsi come sono i personaggi, se non ha immagini.

Un libro si legge dall’inizio alla fine, ma se proprio vuoi perché non hai tempo leggi la fine e basta, così puoi scoprire se il libro ti piace o non ti piace. E la cosa più importante per leggere un libro è saper leggere.

Si legge con tutta la voglia che hai perché i libri ti salvano la vita e ti aiutano a vivere.

Un libro si legge imitando i personaggi nei minimi particolari per far divertire la gente che ti ascolta, ascoltando bene le parole che arricchiranno il tuo vocabolario mentale e imparerai a non fare più così tanti errori.
Sotto le coperte
in piedi
sul divano
per terra
in giardino
a scuola

dove vuoi tu.

Un libro si deve vivere dino in fondo, tutto d’un fiato e le pagine si girano rapidamente ad ogni battito di ciglia.

Un libro si legge con gli occhi, con il cervello e con l’immaginazione.

Si legge parlando, urlando. La nostra insegnante legge i libri, le piace leggere, ogni volta ci porta un libro, ce lo legge con la bocca, si sono dentro tantissimo lettere, più di un milione. Ci sta leggendo Wonder, mi fa annoiare troppo ma devo sentire cose succede.


Come si legge un libro? è anche il titolo di un nuovo albo, recentemente pubblicato da orecchio acerbo, scritto da Daniel Fehr e illustrato da Maurizio A.C.Quarello.






Come incomincia:


Ehi, lettore, che stai facendo?

Stai tenendo il libro sottosopra.

Guardaci!



Gira il libro nel nostro

verso! Non resisteremo

              molto così…



Aspetta,

hai girato il libro?



Scusaci, non credevamo

l’avresti fatto davvero,

e quindi abbiamo cambiato lato.

Così ora siamo ancora

Sottosopra!



Per favore, gira solo pagina.

Non girare il libro!



Stiamo per andare

dall’altra parte.



E adesso, non vedo l’ora di poterlo chiedere a quelle piccole e quelli piccoli. Mi tocca aspettare qualche mese, lo so. Ma ne varrà la pena.

Qui il post delle Briciole
Qui il post di Scaffale Basso

giovedì 17 maggio 2018

Come si usa un libro di testo


Adesso che i giochi sono fatti, e le adozioni sono state decise, posso finalmente parlare con agio di una tra le esperienze per me più significative dello scorso anno: la collaborazione alla selezione delle letture per il libro di testo di classe prima del progetto Scintille, Pearson.



Quando, poco più di un anno fa, mi è stato chiesto di contribuire a questo lavoro, ho accettato subito con entusiasmo: certamente perché si trattava di un’esperienza totalmente nuova e che mi avrebbe sicuramente arricchito, ma anche perché sapevo bene che, se avessi fatto un buon lavoro, avrei potuto adottare lo stesso libro per le mie future prime.

C’è una logica ferrea che guida la selezione delle letture per un libro di testo, e io davvero in quelle settimane ho imparato molto. Soprattutto, però, ho voluto che dentro questo libro ci fossero i titoli che più amo, quelli che ho già usato con le mie bambine e i miei bambini ormai qualche anno fa e quelli usciti nel frattempo, che però non vedevo l’ora di leggere ai nuovi alunni.

Nel frattempo, il libro, e l’intero corso, dalla prima alla terza, hanno preso corpo, e forma, e il prodotto finito è stato davvero all’altezza delle mie aspettative.

Così, sono davvero felice al pensiero che, fin da settembre, potrò accompagnare la lettura dei miei amati albi con un libro che permetta alle mie bambine e ai miei bambini di conoscerne alcune parole, in un assaggio che fa pregustare il tutto.

Perché quel che mi auguro davvero è che ogni insegnante che l’avrà adottato legga la pagina sul testo e poi corra a cercare il libro da cui è stata tratta. E poi lo legga tutto, parola per parola, mostrando ogni immagine ai propri alunni, in classe. E poi ne parli con loro, li ascolti, li faccia scrivere e disegnare. Perché, se così non fosse, sarebbe come pensare di fare una vacanza semplicemente sfogliando il catalogo di un’agenzia di viaggi.








sabato 12 maggio 2018

Lettera all'Invalsi


Caro signor Invalsi,

(ma no, cosa va a pensare? L’aggettivo caro è una pura formula di rito, non c’è alcun sarcasmo. Non mi riferisco certo ai suoi costi, in termini economici e soprattutto di ore regalate alla tabulazione, che forse gli insegnanti avrebbero preferito utilizzare in altro modo, e non necessariamente fuori dalla scuola. Mi scusi, riparto.)

Dicevo:

Egregio signor Invalsi,

(sì, lo so, la prova Invalsi è di genere femminile, ma mi viene da immaginarLa come un omone barbuto. Sì, so anche questo. Dobbiamo porre un freno all’immaginazione. Atteniamoci ai fatti e, soprattutto, rispondiamo esattamente con le parole contenute nel testo. Mi scusi. Cercherò di adeguarmi).

Rifacciamo, di nuovo:

Egregia Invalsi,

finalmente le prove sono concluse

(“finalmente” non va bene? Evoca una sensazione di sollievo, dopo una fatica, o una prova estenuante, e non particolarmente gradita? No, guardi, l’ho intesa semplicemente nel suo senso letterale. Finalmente, alla fine. Non mi vorrà contestare che le prove si concludano alla fine. Questo avverbio non lo tolgo.)

e posso scrivere alcune domande e considerazioni.

Intanto: cui prodest? A chi giova? Non provo neppure a darmi una risposta. Sono anni che la cerco, e ancora non l’ho trovata. Forse ci riusciranno altri. Non credo che le prove Invalsi, dopo aver fotografato più o meno fedelmente alcune abilità o conoscenze obiettivamente verificabili, possano giungere ad altro scopo. Gli insegnanti continueranno a lavorare con i propri alunni seguendo le Indicazioni nazionali ma, soprattutto, le proprie convinzioni didattiche e pedagogiche. Dubito che qualsiasi Invalsi potrà cambiare le cose. Ed io, che non amo prove a risposta multipla, da barrare con una crocetta, continuerò a leggere e far leggere, e a provare ad ascoltare tutte le voci, anche e soprattutto le più fragili e dissonanti, alla ricerca di molte visioni, e di altrettanti diversi orizzonti di senso e di crescita. Continueremo a valorizzare la diversità, e non l’omologazione, a scrivere per imparare a scrivere e riflettere su noi stessi, sugli altri, sul mondo, a cercare senso e bellezza in quel che vediamo, e a provare a cambiare ciò che non ci sembra giusto. Questo -e davvero me ne rammarico- nessuna Invalsi vorrà e potrà mai valorizzarlo, né valutarlo. Così come molti, forse tutti, gli insegnanti converranno con me che non è necessaria alcuna prova Invalsi per essere consapevoli che capacità e competenze individuali, conoscenza della lingua, bagaglio lessicale, contesto socio-economico e culturale, disturbi specifici, fanno spesso la differenza, nella vita, e quindi anche nelle dinamiche di apprendimento, di un bambino o di un ragazzo. Questo, più in generale.

Nello specifico: abbiamo tabulato tutte le prove di italiano, e posso dire che, forse, cinque anni passati a leggere, riflettere, discutere, condividere, interrogarci su noi stessi e sugli altri hanno dato dei bei frutti maturi. Lo dicono una piccolissima parte delle domande di background, le uniche che mi pare abbiano avuto un valore e un significato accettabile e condivisibile per gli insegnanti stessi, quelle sulle relazioni in classe: la percezione è che generalmente in classe si stia bene, ci si fidi dei compagni, ci si diverta. Pare poco?

Ho invece penato un po’ sulle domande relative alla disciplina italiano; qualcuno, più d’uno (sincerità, Capetti, sincerità: molti più di uno) alla frase “Non vedo l’ora di fare italiano” ha risposto “Per niente” o “Pochissimo”. Oh, come sarebbe stato bello se tutt* avessero risposto “Totalmente” o “Molto”. Ah, sì. Vero. È probabile che un/un’undicenne alla frase “Non vedo l’ora” preferisca associare altre conclusioni. Via, mi consolo un po’ -almeno fino a che non leggerò le risposte sul fascicolo di matematica.

Tralascio di commentare le affermazioni sulle aspettative verso il futuro. Persone più capaci e competenti di me hanno già cominciato a farlo, e sono certa continueranno a lungo nelle prossime settimane. Vado oltre.

Vado oltre e dico che la percezione è che moltissimi abbiano compreso il senso di ciò che hanno letto, ci abbiano ragionato su e ne abbiano tratto le proprie, individuali, personalissime conclusioni. E che, come sempre, ciò che appare errato all’Invalsi non necessariamente lo è per chi l’ha scritto, né, tantomeno, per l'insegnante, che da cinque anni conosce ogni su* alunn* e spesso ne intuisce ragioni e motivazioni.

E d’altro canto, rifletto, nella vita continueremo a fare esattamente questo. Perché anche se leggeremo gli stessi libri, gli stessi articoli o guarderemo gli stessi film, ne comprenderemo tanti aspetti diversi, tante molteplici sfaccettature quanti saranno coloro che leggono, guardano, interpretano. Qualcuno dice che 2/3 di ciò che vediamo è dietro i nostri occhi. È gioco facile ipotizzare che molti di noi colgano solo che più appartiene, interessa, tocca, appassiona.

Quindi no, sorprese pochissime. Casomai, conferme; e la sensazione che lavorare per una volta in maniera tanto dissimile e non conforme a quel che avviene di solito non ci abbia fatto poi così male, soprattutto perché ha permesso alle ragazze e ai ragazzi di misurarsi e mettersi in gioco su un terreno, e con delle regole, che non sono quelli praticati abitualmente.

E anche questo è crescere.




venerdì 4 maggio 2018

L'Invalsi e la scomparsa della lentezza





Quando, come in queste ultime settimane, non trovo il tempo per scrivere sul blog, è come se ne sentissi una sorta di mancanza fisica. Apedario è diventato per me un luogo -e un tempo- dedicato, dove fermarmi, riflettere, dare forma ai pensieri che spesso, nella mia testa, assumono l’aspetto, e la densità, di un groviglio. A volte, però, l'urgenza di dipanare prende il sopravvento, e finalmente, a dispetto del tempo che manca, mi fermo, rifletto e scrivo.
Oggi sento forte la necessità di confrontarmi su un argomento tanto più spinoso quanto maggiormente mette in discussione lo stile educativo e didattico di chi sceglie di fare dell’insegnamento una sorta di avventura quotidiana, fuori da schemi precostituiti, da guide uguali per tutti, da percorsi delimitati come binari. Sento di poter dire che per noi, e per i nostri alunni, le prove Invalsi sono davvero, ancora di più, una fatica.

Eppure, mesi fa, dopo una discussione e la relativa votazione, sono stati proprio i ragazzi e le ragazze di entrambe le classi a decidere, a maggioranza, circa l’utilità di esercitarsi per queste prove. L’ho letta come una ricerca di sicurezza, di garanzia, un tentativo di affrontare con meno timori ciò che fino a poco prima era sconosciuto.
Credo si capisca chiaramente, o si possa facilmente immaginare: non sono una sostenitrice di queste prove. Mi lascia sempre estremamente perplessa che la valutazione dell’efficacia dell’operato di un insegnante si basi esclusivamente su prove standardizzate, ovunque uguali per tutti. Scrivevo, appunto, qualche mese fa:

"[...] dentro questo tipo di prova non potrà mai esserci spazio per documentare, valorizzare e valutare il processo, il percorso individuale e collettivo necessario ad acquisire le molteplici competenze di una ragazza, un ragazzo, al termine della scuola primaria: dov'è il pensiero critico? Dove l'argomentazione del proprio pensiero, delle proprie opinioni? Dove la capacità di esprimersi oralmente e attraverso lo scritto? Dove una riflessione sulla lingua che si fa strumento e stile unico e personale per la scrittura?"

La penso ancora così, naturalmente. E però, allo stesso modo, cerco di sottrarmi all'istinto di demonizzazione -da cui solitamente consegue il rischio di un'eccessiva attribuzione d'importanza. Esercitandoci per le Invalsi, abbiamo avuto modo di lavorare utilizzando strumenti (le schede con test a risposta multipla) per nulla abituali nel mio approccio educativo e didattico; ogni volta abbiamo riflettuto sulle diverse possibilità di risposta, eliminando quelle palesemente errate e interrogandoci sulle motivazioni alla base di risposte diverse e sulle loro eventuali giustificazioni. Ci è capitato di imbatterci in errori marchiani insiti nelle prove stesse, o in domande mal poste, o  ancora in risposte formulate in modo poco chiaro, anche per lo stesso insegnante, ed è stata questa una buona occasione per mettere in discussione alcune scelte adulte. In ogni caso, sempre, ci siamo fermati a riflettere ad alta voce, condividendo dubbi e soluzioni alternative. Perché il pensiero divergente esiste, e risulta  talvolta più adeguato, e significativo, e sensato, della pura correttezza formale.
Due giorni fa, per la prima volta, i ragazzi si sono messi alla prova con un test ufficiale (per l’esattezza, quello del 2015). Ad oggi, ancora non l’abbiamo né letto né corretto insieme. Un dato, però, mi ha molto colpito: in una classe, quasi un terzo degli alunni non ha completato la prova nei 75 minuti previsti.

La mia prima considerazione, quella più istintiva, espressa ad alta voce  in classe, è stata il pensiero che sarà necessario sfruttare in modo più adeguato il tempo a disposizione; ma ci penso ormai da due giorni, e mi interrogo su questo dato. Sono stati lenti? Hanno perso tempo? Si sono distratti? O, più semplicemente, si sono soffermati a riflettere, a soppesare le diverse risposte, a calibrarne l’efficacia? E, soprattutto, quando la lentezza ha smesso, per noi, classe, in  particolare, ma più in generale per il mondo odierno, e per alcuni, o molti di noi, di essere un valore, ed è diventata freno, limite, mancanza?
Come spesso accade, per ora non ho risposte, ma solo domande.
E, ancora una volta, mi sembra questo il terreno migliore su cui cercare e costruire insieme.