martedì 28 agosto 2018

La continuità dello sguardo (Bambini, maggio 2018)

Con piacere, a pochi giorni dall'inizio del nuovo anno scolastico, pubblico il testo dell'articolo apparso sul numero di maggio della rivista Bambini.

La continuità dello sguardo
Quando sento parlare o rifletto sulla continuità, mi piace pensare che essa sia, prima di tutto, continuità dello sguardo. Per cominciare, dello sguardo degli adulti, che dei bambini prima, e dei ragazzi poi, si occupano. Siamo ormai abituati, da decenni, a svariate e più o meno significative attività che favoriscano la continuità tra i diversi ordini di scuola. Attività senz’altro utili e lodevoli, ma che, per quanto intense e significative, rischiano di risultare sfilacciate ed evanescenti se slegate da un vero progetto organico e non intessute da uno sguardo condiviso sui reali e concreti soggetti: le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi che ci sono affidati.
Proprio per questo, mi pare di poter dire che lo sguardo sia l’ordito su cui tessere la trama delle necessarie osservazioni che ogni bambina e bambino, ogni ragazza e ragazzo richiedono. E proprio la capacità di osservare – oltre e al di là di griglie e rubriche -  è una delle grandi eredità che 17 anni di ruolo nella scuola dell’infanzia mi hanno lasciato. Un’eredità che purtroppo rischia facilmente di disperdersi, se non continuamente esercitata; e, soprattutto, se soffocata dall’ansia da raggiungimento di standard di competenze e prestazioni.
Lo sguardo degli adulti sulle bambine e sui bambini, sulle ragazze e sui ragazzi, quindi. Ma poi, lo sguardo da cui, senza dubbio, tutto ha inizio: il loro sguardo. Uno sguardo sugli oggetti, sulle persone, sulla realtà, sul mondo; uno sguardo che passa, a mio parere in modo necessario, anche attraverso i libri, ed in particolare gli albi illustrati. In questa pratica, essi diventano strumenti privilegiati, mediatori di senso e bellezza attraverso cui osservare, interrogare, raccontarsi e provare a spiegare la realtà, il mondo, le cose, se stessi e gli altri.
"E se l'arte e la letteratura sono state da sempre, in generale, le forme espressive attraverso le quali l'uomo ha potuto cercare di conservare e coltivare la sensibilità a rischio nel mondo esterno degli affari e delle cose da fare, la letteratura per bambini si è rivelata, da un certo momento in poi, come il tentativo per eccellenza di preservare (non solo per il bambino a cui è rivolta, ma per tutti noi), quello che altrimenti poteva essere perduto: il contatto con l'anima del mondo, e con una parte essenziale del sé. [...] Se l'uomo ha trasformato il mondo naturale in un mondo puramente materiale, cioè ha smesso di percepirlo come un mondo dotato di anima per poterlo manipolare e sfruttare a proprio vantaggio, il bambino ri-anima il mondo, lo guarda con rinnovato incanto, con un tipo di sguardo che sa percepire insieme il visibile e l'invisibile."
 Giorgia Grilli, Bambini, insetti, fate e Charles Darwin, in "La letteratura invisibile Infanzia e libri per bambini", Carocci editore, 2011



Se ripenso a me bambina, credo di poter dire che il libro sia sempre stato questo: la possibilità di guardare il mondo con rinnovato incanto, e di vivere avventure altrimenti inimmaginabili, di immedesimarmi nella personalità e nelle vite dei protagonisti, di trovare un amico e un compagno anche dove, e quando, non ce n’erano altri.
Se penso invece a cosa mi porto, in continuità tra i miei anni alla scuola dell’infanzia e quelli alla primaria, la prima risposta è probabilmente il rifiuto per fotocopie e “lavoretti”. Già allora, mi sembravano attività che svuotassero di significato, e soprattutto di bellezza, le vere capacità, il lavoro vero e intenso, delle bambine e dei bambini. La rincorsa al fare, e al fare tutti uguali - spesso con l’intervento marcato ed evidente dell’insegnante – mi pareva sminuire in modo fortissimo la portata del sapere e del saper fare bambino. Non era questo che volevo, nella mia sezione. Volevo – volevamo - che ci fossero tempo e spazio per il gioco, il movimento, la conversazione, le attività grafiche e di manipolazione. Ci piaceva, soprattutto, che ci fosse sempre tempo per la narrazione e la lettura. Due momenti simili, anche se distinti: c’erano fiabe che facevano ormai parte del patrimonio condiviso (una su tutte, Gianni Testa Fina, dei Grimm) e che raccontavo a memoria, badando a non sbagliare neppure un aggettivo, un sospiro, una pausa, pena il sussulto di chi, attentissimo, non avrebbe mancato di farmelo notare.
E c’era la lettura: sempre a terra, nel nostro angolo, tutti assiepati sul tappeto davanti a me, e tutti attenti. C’è una figura a cui devo molto, del mio amore per i libri prima, e della mia competenza poi, e che a lungo ci ha accompagnato proprio in quegli anni: la dottoressa Paola Senucci, all’epoca psicopedagogista del nostro Istituto. Ricordo bene i suoi interventi, ma soprattutto i suoi corsi d’aggiornamento, le bibliografie, i saggi consigliati.
E poi c’erano loro, le bambine e i bambini: “Ci fai vedere le figure?”, chiedevano ogni volta. E così, giravo l’albo verso di loro e mi esercitavo nella lettura con lo sguardo che sbirciava dall’alto, e al contrario. Non era sempre facile, soprattutto quando il corpo del carattere era piccolo, ma il vero rapimento che spesso leggevo nei loro occhi giustificava la fatica. Uno tra i momenti dedicati era quello antecedente all’uscita delle 16: mi sembrava un bel modo di accogliere i genitori, o i nonni, che trovavano i bambini impegnati in un ascolto non sempre facile da ottenere. Ero certa che fosse questo il modo più facile per trasmettere, ai bambini e ai loro adulti di riferimento, quell’amore per la lettura che da sempre è dentro la mia vita, prima ancora che parte del mio lavoro. Era come se dicessi ad ogni grande: “Si fa così. Puoi farlo anche tu.”
Proprio alla scuola dell’infanzia ho esercitato, per anni, il privilegio, per i bambini e per me, di una lettura completamente gratuita, libera dalla logica adulta, che generalmente la rinchiude nell’ambito angusto della comprensione, o, più ancora, dei “temi”: la paura, il vasino, l’abbandono, la gelosia. A questo proposito, trovo illuminante l’intervento di Nicoletta Gramantieri, responsabile della Biblioteca Salaborsa ragazzi di Bologna, che da anni si occupa di laboratori di educazione alla lettura rivolti alle scuole e tiene corsi di formazione per insegnanti e bibliotecari relativi alla lettura e alla letteratura per bambini e ragazzi, in L’albo illustrato e il suo lettore, dal saggio Ad occhi aperti Leggere l’albo illustrato, Hamelin, 2012: “Abbiamo già sottolineato come l’albo illustrato sia una delle prime fonti scritte a cui i piccoli possono rivolgersi per soddisfare il loro bisogno di storie. Sembrerebbe quindi che compito degli adulti sia semplicemente permettere ai piccoli di incontrare i libri, di incontrarne tanti per poter individuare, scegliere, godere proprio di quelli in grado di rispondere a bisogni e desideri individuali per quanto riguarda la fruizione di storie. Il mercato editoriale ha una proposta molto ricca e articolata all’interno della quale, con qualche strumento e un po’ di esperienza, è possibile muoversi e valutare. Il contatto quotidiano con insegnanti e genitori, la frequentazione della lista Nati per leggere e alcune collane pensate per i più piccoli ci raccontano però che il rapporto fra bambini, libri e adulti non è così semplice. È successo che gli adulti abbiano iniziato a pensare non che i bambini, come tutti gli umani, abbiano bisogno di narrazioni, di storie, ma che abbiano bisogno di storie per affrontare i compiti di sviluppo. Anche questo è vero, molti sono i racconti di lettori attorno all’aiuto ricevuto dai libi in momenti impegnativi della vita. Questa esigenza viene però spesso banalizzata nel tentativo di creare un’esatta corrispondenza fra compito di sviluppo e storia narrata. […] Quello che suggerisco agli adulti è di cercare i temi partendo dai libri, non di cercare i libri partendo dai temi. Lo faccio mostrando come all’interno dei libri costruiti con cura, con attenzione a tutti gli aspetti e con una storia che funzioni narrativamente sia possibile rintracciare pressoché qualsiasi tema.”




E così, alla scuola dell’infanzia, leggevo. Leggevo e basta.
Sceglievo - sceglievamo, perché spesso erano proprio le bambine e i bambini a farlo – qualsiasi albo o libro desiderassimo dalla biblioteca appena fuori dall’aula, in uno spazio facilmente accessibile agli alunni di tutte le classi, e leggevo. A volte, durante la lettura, le bambine e i bambini mi interrompevano con domande, commenti, osservazioni; a volte - ed è questo, soprattutto, che io chiedo ai mei alunni nel passaggio alla scuola primaria - ascoltavano dall’inizio alla fine, e poi tornavamo indietro, a rileggere, osservare, riflettere, commentare.
Ho imparato molto, in quegli anni, sia riguardo le tecniche della lettura (la modulazione della voce, che può divenire un sussurro e in attimo tramutarsi in urlo, l’interpretazione e la caratterizzazione timbrica dei diversi ruoli, l’importanza delle pause e del silenzio), sia, soprattutto, riguardo la conoscenza e la selezione dei libri da proporre. Perché, se è vero che è necessario lasciare spazio alla scelta bambina, senza giudizio, senza presunzione, senza censura adulta, è altrettanto vero che proprio all’adulto tocca conoscere e proporre anche altro, uscendo dagli stereotipi facili e scontati di quel che i bambini già apprezzano attraverso i modelli televisivi o commerciali e mostrando loro, narrando con immagini e parole, che esistono altri linguaggi, altri protagonisti, altre storie.
C’era un albo, in quegli anni, che le bambine, i bambini ed io amavamo particolarmente: Io mi mangio la luna, di Michael Grenjec, Arka. È la storia degli animali della savana, che nelle notti di luna piena si chiedono che gusto abbia la luna, finché decidono di tentare di assaggiarla.
Da sempre, nelle calde notti africane, gli animali si chiedevano che sapore avesse la luna. Era dolce? O salata? O amara?
Avevano provato ad allungare il collo, a rizzarsi sulle zampe posteriori, a tendere quelle anteriori. Ma nessuno di loro era mai riuscito a toccarla.
Finché, una notte di luna piena, la tartaruga decise di salire su un’alta montagna.
“Da lassù riuscirò certamente a toccare la luna e a scoprire che sapore ha. E se sa di insalata, io me la mangio” pensò.



Un linguaggio evocativo, pur nella sua semplicità. La savana è un luogo lontano, selvaggio, sconosciuto. Eppure, la luna che vedono i suoi abitanti è la stessa che si può ammirare da qualsiasi altro luogo al mondo. E che sapore avrà? Qui siamo nel territorio dei bambini, che tutto percepiscono con i sensi, e che con i sensi imparano a conoscere e a raccontarsi il mondo. Ed è proprio l’abbinamento tra la semplicità degli aggettivi dolce, salata, amara, e la percezione della luna, naturalmente limitata al campo visivo, a risultare spiazzante, e vincente. Nessuno fino a quel momento si era mai chiesto che gusto avesse la luna: solo gli animali, e i bambini, avrebbero potuto porsi tale domanda.
La prima a tentare l’impresa è la tartaruga: un animale né grande, né potente, neppure nell’immaginario collettivo. Eppure, è proprio il suo guscio a sostenere prima l’elefante, poi la giraffa, e la zebra; via via, ogni animale chiamato a soccorso dal precedente, in una storia “incatenata” degna delle fiabe a catena della migliore tradizione orale e scritta, si avvicina sempre più all’oggetto del desiderio, che ogni volta sfugge un po’ più in alto nel cielo; finché è proprio il più piccolo, il topolino, a beffare la luna e a staccarne un bel pezzo con un morso.
E dunque, mi chiedo, ora come allora, chi ha bisogno di libri a tema, quando in un solo albo possiamo trovare la curiosità che allarga gli orizzonti, l’autostima che permette di tentare qualsiasi impresa, la consapevolezza che, dove non riusciamo da soli, qualcun altro potrà aiutarci, o farcela, la soddisfazione di riuscire in un’impresa considerata impossibile, la rivalsa del più piccolo contro la furbizia di chi si credeva irraggiungibile?
Così, quando sono stata invitata a tenere il mio primo incontro laboratoriale per gli studenti del corso di laurea in Scienze dell’educazione dell’Università Cattolica di Milano, non ho avuto alcun dubbio, e ho scelto proprio una rappresentazione in grande formato di quest’albo, dove i protagonisti potessero entrare di volta in volta in un’unica scena e concorrere al degno finale.

Risalgono proprio agli anni della scuola dell’infanzia - che han coinciso con l’infanzia dei miei figli – la conoscenza e l’amore appassionato e mai sopito per alcuni immensi protagonisti della letteratura: il mostro peloso e Lucilla, la talpa di “Chi me l’ha fatta in testa?” e il piccolo bruco mai sazio, Harold e la sua matita viola, Biagio il pulcino mascherato e i Tuim, Federico e Pezzettino. Protagonisti che mi hanno accompagnato, in assoluta continuità verticale, dalla scuola dell’infanzia a quella primaria, diventando compagni amati anche dai bambini più grandi. Naturalmente, con il passaggio non ho smesso di cercare e scegliere libri, e in particolare albi illustrati, classici e nuovi, continuando a frequentare fisicamente librerie e biblioteche, e scegliendo con cura i blog da seguire on line (su tutti, quello della casa editrice Topipittori, Lettura candita di Carla Ghisalberti e Scaffale Basso di Maria Polita). Fin dal primo giorno della prima, io sono diventata “la maestra dei libri e delle storie”, quella che per presentare ogni lettera utilizzava i personaggi della letteratura per l’infanzia e ne narrava le avventure. Ogni bambina, ogni bambino, ascoltava e disegnava; poi, prima con il mio aiuto, in seguito in graduale autonomia, scriveva quel che della storia lo aveva particolarmente colpito, in una produzione scritta sempre libera e personale. Mi pare questo il maggior merito di tale approccio didattico: la possibilità di confrontarsi con diversi linguaggi, di apprenderne il lessico e le tecniche, di farli propri e di trovare via via il proprio stile espressivo. Il rischio, in un lavoro di questo tipo, è sicuramente quello di guardare ad ogni albo, ad ogni libro, soprattutto per le sue possibili valenze didattiche, sovrapponendole al valore primario e intrinseco di senso e bellezza per il quale è stato originariamente scelto.
Così ora mi trovo sovente a pensare che la lettura gratuita è la grande sfida che spesso si rischia di perdere proprio nel passaggio alla scuola primaria, dove abitualmente la tecnica, sia da parte del bambino che dell’adulto, è strumentale alla comprensione, alla riflessione morfologica, alla produzione scritta, mentre più raramente lascia spazio al piacere, al gusto, al divertimento, alla bellezza.
Una sfida, certo, perché io per prima utilizzo i libri, ed in particolare gli albi, per la didattica; ma nel farlo cerco di non dimenticare tutto il portato che questi libri hanno, il loro valore intrinseco, la loro capacità di generare riflessioni da condividere e, ancor prima, quel silenzio tanto spesso invocato proprio dagli insegnanti. Raramente ho avvertito in classe questa magia, se non durante la lettura, da parte mia, di un libro particolarmente intenso e significativo. Il silenzio che genera pensiero, riflessione, le basi su cui condividere, discutere e sviluppare quello spirito critico che mi sembra obiettivo fondamentale per la crescita.
Qualche tempo fa Maria Polita, studiosa di letteratura per l’infanzia, blogger di Scaffale Basso e responsabile dei laboratori di Scrittura all’Università Cattolica di Brescia e Piacenza, mi ha chiesto cosa ci guadagnino i bambini a cui si legga costantemente. Ho risposto: “Un bambino a cui si leggano appassionatamente libri non guadagnerà automaticamente l’amore per la lettura autonoma; questo è una sorta di pensiero magico, di cui io per prima devo imparare a liberarmi. Ogni bambino che abbia la fortuna di avere accanto un adulto che legge per lui guadagnerà però sicuramente uno sguardo attento, una mente pronta, la capacità di ascolto, l’attenzione ai particolari, un linguaggio ricco, e, su tutto, la capacità di vedere le cose da molteplici punti di vista, e da molteplici punti di vista riflettere su di esse.”
Ho insegnato per 17 anni nella scuola dell’infanzia, e da 14 sono passata alla primaria. Sono l’insegnante, e prima ancora, la persona, che sono, anche e soprattutto grazie a quei primi 17 anni. Penso, e lo dico spesso, che per ogni insegnante di scuola primaria sarebbe necessario un periodo di esperienza alla scuola dell’infanzia. Se ne guadagnerebbero, quantomeno, una percezione più realistica e uno sguardo più attento sulle bambine e sui bambini veri, reali, contro l’idea stereotipata di bambina e bambino che molti di noi, insegnanti della primaria, abbiamo in mente e ci aspettiamo di trovare sui banchi il primo giorno di prima.
Esiste l’infanzia, certo; ma prima ancora, e soprattutto, esistono i bambini e le bambine, nella loro singolarità e unicità. E ognuno di essi potrà trovare forse, dentro un libro, “[…] le parole capaci di restituirgli il senso della sua esperienza, o di uscirne, in un libro scritto da un uomo o da una donna che parla di cose completamente differenti, magari lontanissime nel tempo o dall’altro capo del mondo. Proprio laddove presuppone un viaggio nel tempo e nello spazio, laddove produce una metafora (la quale, come è ormai assodato, crea movimento in colui che la percepisce), laddove genera un’appropriazione, un libro attiva davvero il lettore, che può rimanere sconvolto e, tra le righe, ritrovare la creatività, lasciarsi andare alla fantasticheria, pensare.” Michèle Petit, Elogio della lettura, Ponte alle Grazie, 2010


giovedì 16 agosto 2018

Una capra sul tetto, ovvero Che cos'è la fortuna?


Credo di non aver mai letto per trovare risposte.
Per immedesimarmi in altre vite e in altri luoghi, certo. Per divertirmi. Per pensare. E spesso ho letto trovando consolazione.
Mi è capitato anche in questi giorni bui.
Un libro, tra i tanti che sono in vacanza con me, mi chiamava. E, non a caso, era un libro per ragazzi.
Ho avuto fortuna e ho avuto sfortuna. Sono fuggita da un paese pieno di problemi e sono venuta qui. Ho avuto fortuna. Avevo pochi soldi. Ho avuto sfortuna. Ho conosciuto un uomo e me ne sono innamorata e ci siamo sposati. Ho avuto fortuna. Abbiamo avuto due figli. Ho avuto fortuna. Mio marito è morto. Ho avuto sfortuna. Mio figlio si è sposato e ha avuto un figlio. Ho avuto fortuna. Mio figlio e mia nuora sono moti. Ho avuto sfortuna. Mio nipote è vivo. Ho avuto fortuna. Credo nell’esistenza della capra, ma non nella fortuna.
A parlare è la dottoressa Lomp, nonna di Will, i cui genitori sono morti nel crollo delle Torri Gemelle. Come non pensare al disastro di Genova? E come non pensare all’altalenarsi di fortuna e sfortuna che caratterizza la vita di ogni uomo, do ogni donna, di ogni creatura?
A volte il bilancio è negativo; forse più raramente ci accorgiamo di quanto sia positivo.
E allora, come tocca imparare a Kid, protagonista del romanzo, tocca alzare lo sguardo oltre le spalle di chi abbiamo di fronte, superare la paura di incontrare davvero l’altro e guardarlo per la prima volta negli occhi. Tocca, come a Will, imparare ad affacciarsi sul vuoto, sull’altezza, e, per mano a chi ha incominciato a volerci bene e a fidarsi di noi, muovere i primi passi.
Tocca, come alla dottoressa Lomp, imparare a lasciare andare, certi che non potremo mai proteggere chi amiamo da ogni pericolo, ma con la consapevolezza che sapranno affrontare ciò che la vita riserverà loro.
Tocca sperare di poter vivere ogni giorno circondati da persone gentili e generose come i vicini di Doug e Caterina la Grande
Tocca soprattutto, come alla capra, cercare di vivere seguendo il richiamo di ciò che siamo davvero.




Anne Fleming, Una capra sul tetto, Mondadori

giovedì 9 agosto 2018

Siamo tutti Malfatti. Anche gli insegnanti


Manca poco meno di un mese all’inizio della scuola.

Il primo giorno di settembre, gli insegnanti si ritroveranno dentro le aule che sono per molti una seconda casa (e, a volte, anche la prima). Solo pochi giorni dopo, accoglieranno bambine e bambini, ragazze e ragazzi con cui condivideranno tanta parte del proprio tempo per 9 mesi.

Non ci avevo mai pensato. Per ogni insegnante, il tempo della scuola con i propri alunni è esattamente il tempo di una gravidanza. Il tempo dell’attesa, moltiplicato per i cinque anni che normalmente si trascorrono insieme. Cinque attese, ogni anno diverse, ogni anno singolari, per svariati, imprevedibili motivi: primo fra tutti, la variabile umana.

Non ci sono molte altre professioni come la nostra, dove confrontarsi ogni giorno con così tante persone in crescita, ovvero in un momento della loro vita particolarmente importante e delicato.

Per 9 mesi ogni insegnante avrà di fronte a sé un numero variabile da 15 a 29 alunni per classe, e dovrà trovare, ogni giorno, ogni istante, il modo più giusto ed equilibrato per relazionarsi e accompagnare nella crescita ciascuno di loro.

Ciascuno, capite?

Non l’uno, i due o i tre che molti di noi hanno per figli. E sappiamo bene quanto sia difficile, foss’anche con uno soltanto.

Ecco. Immaginate un insegnante. Immaginatelo in classe. E moltiplicate per un numero variabile da 15 a 29 (e magari moltiplicate ancora per due, perché pochi di noi lavorano in una sola classe) la responsabilità di un genitore verso il proprio figlio.

Fatelo.

E poi comprendete e perdonate gli insegnanti che sbagliano (ma solo se in buona fede, e se capaci di riconoscere la propria fallibilità, soprattutto davanti ai bambini).






Beatrice Alemagna, I cinque malfatti, Topipittori