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sabato 23 giugno 2018

Lasciare il segno


Uno degli ultimi lavori realizzati dalle ragazze e dai ragazzi di quinta è stato scrivere in poesia i propri pensieri su questi nostri anni insieme.
Molti mi hanno colpito, ma ci sono due versi, in particolare, che mi girano in testa da quando li ho letti:

[…]

Con fatica e con impegno,

noi abbiamo lasciato il segno.



Quanti modi ci sono di lasciare il segno? Credo molti. Forse, addirittura, i primi a venirci in mente sono i più dolorosi: graffi, cicatrici, lividi sono i primi segni che un bambino porta fisicamente sulla pelle come simbolo concreto del proprio relazionarsi al mondo, e agli altri.
Non a caso, una delle poesie che più hanno segnato l’immaginario delle ragazze e dei ragazzi è stata “La mia pelle” di Giusi Quarenghi, in cui l'autrice racconta il rapporto, strettissimo e talvolta controverso, tra un io e la sua pelle. 


Ecco: nel bene e nel male, mi paiono molte le cose capaci di lasciare il segno; ma è il verso precedente, Con fatica e con impegno, ad essere, soprattutto perché scritto da un’undicenne contemporanea, davvero significativo.

Non mi pare siamo rimasti in molti a considerare valore la fatica e l’impegno, soprattutto se richiesti a bambini o ragazzi; al contrario, molta parte dell’educazione e dell’apprendimento moderno sembra doversi basare sui principi di piacere e divertimento.

E se questo credo sia doveroso, e sano, tanto più le bambine e i bambini sono piccoli, mi pare però di poter affermare anche quanto a un certo punto -un punto che naturalmente è difficile stabilire identico per tutti, perché a cambiare sono i livelli di maturazione dei singoli- sia necessario che passi anche un altro messaggio: quello che spesso, per apprendere, così come per realizzarsi nello sport, nel lavoro o in qualsiasi altra attività che ci veda coinvolti, fatica e impegno diventino necessari, compagni virtuosi di cui gli adulti per primi non dovrebbero vergognarsi, né tantomeno scandalizzarsi.

Perché, mi chiedo spesso, tanti genitori, tante famiglie, sono così pronte a sostenere i figli nella fatica e nell’impegno richiesti dalla pratica dello sport, al punto da farli allenare e gareggiare in qualsiasi condizione ambientale e di salute personale, mentre sono altrettanto solleciti ad abbassare le richieste e a giustificare il non fatto quando si tratta di scuola?

Forse perché la scuola è un obbligo, mentre lo sport, o altre attività sono una scelta?

O forse perché l’impegno nello studio, nel dovere scolastico, non è gratificato, al mondo, allo stesso modo dei successi artistici o sportivi?

Questa ragazzina mi pare aver capito una cosa importante: spesso per lasciare il segno non bastano capacità e passione. Fatica e impegno sono ancora, anacronisticamente, parole necessarie. Non togliamole alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi.

sabato 20 gennaio 2018

È faticoso, essere maestr* in quinta


È faticoso, essere maestr* in quinta.

Perché per anni hai cercato di seguire i ritmi di ognuno, non preoccupandoti poi così tanto, pensando ogni volta “lo faremo l’anno prossimo”, e ora sai che non ci sarà un anno prossimo. Cioè, ci sarà, ma ognuno per proprio conto, tu da una parte e loro dall’altra. E al massimo v’incontrerete in cortile, improvvisamente timidi, imbarazzati e in cerca di cose divertenti e intelligenti da raccontarvi (no, come va alle medie non conta).

È faticoso, essere maestr* in quinta.

Perché vorresti finalmente vedere i frutti, dopo tanto seminare: e non è che i frutti maturino sempre così facilmente. E se i semi non avessero attecchito? E se tu non avessi innaffiato, concimato, nutrito, sostenuto nel modo giusto? Se avessi dato troppa acqua, troppa luce, troppo concime, troppo sostegno? O troppo poco, che chissà se è meglio o peggio.

È faticoso, essere maestr* in quinta.

Perché hai avuto quasi cinque anni per guardare, ascoltare, leggere, intuire. E comunque ti accorgi che, forse, di qualcuno hai capito poco, o quasi nulla. E anche chi ti sembrava d’aver compreso, a volte sfugge, nella necessità di crescere, staccarsi, andare.

È faticoso, essere maestr* in quinta.

Perché, anche se le tue mani vanno, da sole, verso un viso, o una testa, da carezzare, la mente a volte le ferma, chiedendoti se quel gesto sia ancora gradito. Perché le lacrime dei 10anniquasi11 fanno ancora più male dei 6quasi7. Perché i dolori sono spesso più celati. Perché la strafottenza e il sorriso irridente non sempre riescono a nascondere la paura, la sofferenza, la timidezza, il disagio.

È faticoso, essere maestr* in quinta.

Perché, come coi figli, a volte non vedi l’ora che se ne vadano, mentre, nello stesso istante, vorresti che non se ne andassero mai.

È faticoso, essere maestr* in quinta.

Perché crescono, sudano, scalpitano, fremono. Perché sono piccoli e grandi. Perché non sono né piccoli né grandi. Perché vogliono essere piccoli e grandi. Perché non vogliono essere né piccoli né grandi. Perché sono i più grandi tra i piccoli e i più piccoli tra i grandi. Perché hanno le idee confuse. E tu con loro.

È faticoso, essere maestr* in quinta.

Perché gli ormoni sono potentemente in circolo, il cuore salta i battiti o sfonda la cassa toracica, le gambe si allungano di scatto per fare uno sgambetto pensando sia un buon modo per attirare l’attenzione, le stringhe sono perennemente slacciate, i capelli lunghi un’ora raccolti e l’altra sciolti, quelli corti sempre troppo corti, le unghie rosicchiate o smaltate, le maniche in bocca, le penne pure. Perché bevono, e vanno in bagno, vanno in bagno, vanno in bagno.

A volte, ti chiedi se davvero siano passati 5 anni.

È faticoso, essere maestr* in quinta.

Po ci pensi, e ti accorgi che le cose più belle della tua vita ti sono spesso costate una gran fatica.