Sono convinta che i libri
che scegliamo di leggere in classe dicano molto rispetto a che bambini vogliamo
e che insegnanti siamo. Dicono del nostro stile educativo, degli obiettivi che
perseguiamo, della nostra idea di bambino; un’idea astratta che però accetta -deve
farlo- di confrontarsi con ogni bambino reale che ci troviamo di fronte.
Quando, ormai più di tre
anni fa, in prima lessi I cinque Malfatti, di Beatrice Alemagna, Topipittori, ai miei allora bambini, queste furono esattamente,
parola per parola, le loro reazioni:
«Il perfetto è
stupido, che è una parolaccia, ma qui si può dire, perché significa che non usa
il cervello.»
«Il perfetto è antipatico, perché vuole comandare lui che non c’entra
niente.»
«Il mio preferito è il molle, perché
mio fratello mi chiama pappamolle.»
«Il mio invece è lo sbagliato, perché mia sorella mi dice che sono
sbagliato.»
«Il perfetto fa ridere perché ha i
mutandoni.».
Ma perché ai bambini i Malfatti piacciono tanto?
Il bucato piace «perché non si arrabbia mai»; «perché la
rabbia gli esce dai buchi».
Il molle «perché dorme»; «perché anche a me piace dormire»; «perché quando paro la palla ho la pancia molle».
Il capovolto «perché a volte faccio la verticale»; «perché
mi piace andare al circo».
Il piegato «perché anch'io so piegarmi».
Ma
il preferito dei bambini è senza alcun dubbio lo sbagliato: «perché sbaglia tutto»; «perché fa ridere»; «perché
anch’io qualche volta sbaglio»; «perché è ciccione»; «perché ha la bicicletta
troppo piccola/troppo lunga (in ogni caso fuori misura)».
Ecco, forse è proprio dentro
questa sensazione d’essere sbagliati, fuori misura, che ognuno di noi può
ritrovare, dentro di sé, il desiderio prepotente di essere incluso; ed è
proprio per questo che nel mio lavoro amo scegliere libri da cui emergano
protagonisti assolutamente diversi tra loro, ma uniti dalla ricerca della
consapevolezza di sé, degli altri, delle proprie capacità e dei propri limiti.
Protagonisti che sappiano pensare con la propria testa, che facciano sorridere,
sbarrare gli occhi, sognare, riflettere. Che intraprendano nuove strade. Che
facciano nuovi pensieri. Che sappiano ridere, soprattutto di sé.
Vogliamo -o, almeno, io
voglio, e lo dichiaro subito, ai bambini stessi, attraverso i libri che leggo
loro-
a) bambini che pensano (e non solo -non sempre- quel che vorrebbero gli adulti). Io credo che occorra “correre il rischio” che i bambini sviluppino un pensiero autonomo, anche diverso od opposto al nostro, base necessaria allo sviluppo del pensiero critico, obiettivo/competenza fondamentale per la scuola, ma soprattutto per la vita
b)
bambini che sappiano ridere di sé e dei
propri limiti, prima di/invece che di quelli degli altri (ogni maestra ha ben
in mente un bucato, un molle, uno sbagliato…e magari anche un perfetto stupido)
c)
bambini capaci di andare oltre gli stereotipi
(e, prima di pensare a progetti ambiziosi e spesso assolutamente solitari,
meglio leggere loro storie con i personaggi giusti: Olivia, Pippi, Lotta,
Ciorven, Amelia, Temple
Quando a fine giugno
Francesca Romana Grasso mi ha chiamato per propormi questa bella opportunità, ho accettato
con entusiasmo, che è una parola che da sempre mi caratterizza. Tra le molte
cose che ci siamo dette in quella telefonata, una domanda di Francesca mi ha
colpito particolarmente: quanto la parola inclusione, su cui verte questo
tavolo, è ancora significativa? E quanto, invece, può essere ormai a rischio di
uno svuotamento di significato, forse per la sovraesposizione, l’abuso di cui è
stata oggetto in questi anni?
E ancora: Cosa significa davvero
questa parola?
inclùdere
v. tr. [dal lat. includĕre, comp. di in-1 e claudĕre «chiudere»] (coniug. come accludere). – 1. Chiudere dentro, inserire in
una missiva, in un plico e sim. (più com. accludere, che ha
in sé l’idea dell’allegare): ti includo nella lettera la
ricevuta. Con senso più generico, i.
una clausola in un contratto, e
sim. Nella tecnica istologica, procedere all’operazione dell’inclusione. 2. Comprendere in un numero, in
una serie, in un elenco: i. nella commissione, nella giuria, nella lista dei candidati o dei vincitori; i. tra
i soci, tra i premiati. 3. Contenere in sé: le sue parole includono un tacito biasimo;
il verbo «camminare» include in sé l’idea del
movimento. ◆ Part. pass. incluṡo, anche come agg. e s.
m. (v. la voce).
(dal vocabolario Treccani online)
Includere significa quindi
chiudere dentro; e se anche è sicuramente nobile l’intento di inserire in modo
stabile, efficace e sereno tutti i membri di una comunità (in questo caso
quella scolastica), è il verbo chiudere che fa risuonare in me qualche
perplessità.
Perché chiudere -seppur
dentro e non fuori- se invece vogliamo accogliere, in un processo che Francesca ha ben definito osmotico, e soprattutto valorizzare le
differenze, qualsiasi esse siano?
È qualcosa su cui ho
riflettuto a lungo, ritrovando nella mia mente, seppur con le dovute
differenze, un parallelismo con la parola tolleranza. Anch’essa, nel corso del tempo, ha modificato
il proprio significato, fino ad arrivare ad avere una connotazione negativa,
proprio a partire dal suo senso più profondo. Tollerare contiene in sé
un’accezione negativa, di chi parte da una posizione di dominanza, per
sopportare chi reputa di livello inferiore al proprio.
Allo stesso modo, includere
- lo dice il verbo stesso - racchiude, ingloba, recinta, ciò che forse
recintabile non è.
Ho quindi pensato a quali
siano le vere necessità dei bambini, dei ragazzi, nessuno escluso, e di quali
di queste necessità è obbligo che un insegnante si faccia carico; le ho quindi trasformate
in poteri, sulla suggestione di una delle più belle letture fatte quest’anno:
Il potere del
gioco
C’è un brano
che, recentemente, ho voluto inserire tra le scelte per un libro di testo di
futura prima: si tratta di una pagina tratta da Mallko e papà, di Gusti,
edito da Rizzoli
MALLKO
E PAPÀ – CONGELATO
Mallko
ha molti poteri.
Uno
di questi è il raggio “congelante”.
Ti
lancia un raggio che di solito è accompagnato
da
un BUUU! o da un grido.
E tu
sei congelato.
Una
volta congelato devi aspettare che ti scongeli.
Il
metodo più efficace è il bacio.
A
volte prova con un altro BUUU!
ma
se non funziona si avvicina
e ti
dà un altro bacio che ti scongela.
Poi
ricomincia daccapo (attenzione, il gioco può durare diverse ore).
A
volte ti trasmette il potere di congelamento
e
così sei tu che lo puoi congelare
e
lui rimane con la testa bloccata di lato.
Gusti, Mallko e
papà, Rizzoli
Avrei potuto scegliere molte
altre pagine, da questo o da altri libri scritti sulla disabilità; ho scelto
quella che avete appena ascoltato perché mi è parso di poter dire, ai bambini
che la leggeranno, e che spero abbiano la fortuna di avere un insegnante che,
come per ogni brano, mostri loro l’albo da cui il testo è stato tratto: ecco,
questo è Mallko. È un bambino “diverso” - ma non siamo tutti, uno dall’altro,
diversi? È un bambino che per certi versi farà sempre più fatica della maggior
parte di voi. Eppure è anche un bambino che, come tutti i bambini, nel gioco
ritrova il proprio io. Cosa c’è di diverso, in questo, da ogni altro bambino,
da ognuno di voi?
Il potere della parola
Un’altra necessità per un
insegnante che voglia realizzare una scuola realmente fatta da e insieme ai
bambini, ai ragazzi, è dar loro voce:
"[...] ridare la parola agli
alunni perché possano essere autori della loro crescita e della loro
formazione."
L'arte
dello scrivere Incontro fra Mario Lodi e don Lorenzo Milani, Casa delle Arti e del Gioco - Mario
Lodi
Questo
processo è ben descritto in alcuni passaggi del libro di Franco Lorenzoni, I
bambini pensano grande Cronaca di un’avventura pedagogica, Sellerio
“Ancora una volta stiamo procedendo a tentoni. Provoco discussioni e dalle
loro parole nascono piste che poi cerco in qualche modo di alimentare, quando
ci riesco.”
Procedere a tentoni. Provocare discussioni. Alimentare in qualche modo le piste nate dalle parole dei bambini. Quando ci riesco.
Sono forse queste le parole che meglio riassumono il
senso del mio “agire” pedagogico e didattico: quel che scrive Lorenzoni,
maestro elementare che ha fondato ad Amelia, nel 1980, la casa-laboratorio di
Cenci, un centro di sperimentazione educativa che ricerca intorno a temi
ecologici, scientifici, interculturali e di inclusione, provoca un'eco
profondissima dentro di me.
E mi dico che se ancora oggi un maestro come lui
procede a tentoni, forse posso continuare a farlo anch'io.
“[...] rimango spesso stupito quando assisto alla meraviglia del nascere di
un pensiero e perché penso che il bello, nel dialogare, stia proprio nella
tensione di ciascuno a cercare di chiarirsi un'idea tramite parole che nascono
in un gioco di reciproco ascolto e di scambio che, quando s'innesca, sembra non
avere fine.
“So però che in questo mondo in cui ci è capitato di vivere, è assolutamente
necessario fare esperienze, osservare tanto e frequentare il bello ovunque si
trovi, per nutrire l'immaginazione nostra e dei bambini. E che questo dovrebbe
essere il maggiore imperativo per un'istituzione che ha l'ambizione di formare
le nuove generazioni.”
LORENZONI
F., I bambini pensano grande Cronaca di una avventura pedagogica,
Sellerio
Il potere dell’ascolto
Quanto
tempo dedichiamo all’ascolto dei bambini, di tutti i bambini, anche di quelli
che sembrano non parlare mai (e invece lo fanno con il corpo, con i silenzi,
con la scrittura, con il disegno, con il gioco, con gli errori)? E quante delle
parole che i bambini dicono vengono davvero utilizzate per ripartire con i
nostri progetti, le nostre attività, secondo quel che mirabilmente racconta
Franco Lorenzoni, maestro e padre di un ragazzo disabile?
Assumere pienamente la pedagogia dell’ascolto
come fondamento dell’innovazione didattica comporta un nostro rimetterci in
gioco in profondità perché, come ci ricorda Alessandra Ginzburg, alcune domande
infantili sono “spesso inquietanti e insidiose rispetto alle salde certezze”
che riteniamo di avere. Ma, forse, è proprio accogliendo queste inquietudini
che possiamo coltivare quello stupore attento, così necessario per mantenere
viva la relazione educativa.
Franco Lorenzoni sulla rivista Bambini
Il
potere della poesia
Io credo fortemente che la
grande valenza e la potenzialità del fare poesia, fuori e dentro la scuola - ma
soprattutto dentro - sia la sensazione di assoluta libertà che i bambini
sentono sulla propria pelle, nella testa e nel cuore. Penso che il bello della
poesia, in particolare per i bambini più in difficoltà con la parola,
soprattutto scritta, sia proprio la possibilità di esprimersi senza il timore
di essere giudicati. Come afferma la stessa Candiani in una recente intervista:
«Non è facile partecipare a un seminario
di poesia, bisogna accettare di non sapere niente, per questo i più bravi a
scuola hanno più difficoltà perché hanno più paura a lasciar cadere i
risultati, le sicurezze, i luoghi protetti. Gli asini invece corrono liberi.
Spesso dentro un asino c’è un poeta addormentato e sfiduciato e io cerco di
scovarlo con delicatezza. Mi sembra che tutto stia nel vedere i bambini e le
bambine più invisibili di tutti. Io sono stata una di loro, così mi è facile
notarli per primi.»
Trovo conferma delle parole
della Candiani nel volume Io potrei essere tutto, da me curato
e pubblicato nel giugno 2016, che raccoglie 108 poesie, scritte dai miei 54
alunni e scelte in assoluta autonomia da ognuno di loro.
La maggior parte sono frutto di una rielaborazione di
poesie di autori conosciuti (su tutti, Silvia Vecchini e Giusi Quarenghi); Parole
e Silenzio sono invece nate nel corso di una lunga riflessione sulla
bellezza delle parole e del silenzio che ci ha accompagnato alla nascita del
nostro progetto di educazione alla bellezza; Sono è la riscrittura
poetica, attraverso l’utilizzo della metafora, del gioco del Se fossi…
Ogni volta che rileggo il libro, mi tornano alla mente
i visi dei bambini, le loro espressioni divertite, o concentrate, la fatica e
l’impegno che molti hanno messo nello scrivere, nel trovare e dare forma ai
propri vissuti, a sensazioni, emozioni, sentimenti. Spesso ho riconosciuto tra
i versi il carattere dei piccoli poeti. Altre volte, più raramente ma in modo
altrettanto significativo, mi sono stupita nell’intravedere, come dice Silvia
Vecchini nella prefazione al libro “come attraverso uno spioncino, le stanze
dove le intelligenze di questi bambini sono così accolte che si esprimono senza
timori, si fanno grandi, coraggiose e forti tanto da dire Io potrei essere
tutto.”
C’è un ricordo che conservo nitidamente: anni fa,
all’inizio del mio lavoro nella scuola primaria (prima avevo insegnato per 17
anni nella scuola dell’infanzia), durante l’assemblea di fine anno con i
genitori, la collega di italiano della classe parallela alla mia disse: «Anche
a me piacerebbe molto lavorare con i bambini sulla poesia, ma non ho tempo.».
Io ero agli inizi, lei prossima alla pensione. Eppure,
nonostante la sua esperienza, che la rendeva un’insegnante estremamente capace
e competente, non aveva tempo per ‘lavorare’ sulla poesia.
Per
me, in questi anni, è stato invece sempre vero il contrario: naturalmente,
l’elenco di quel che non ho ‘fatto’ in classe con i bambini è molto lungo. Però
per la poesia c’è sempre tempo «[…] nell'idea
che la poesia sia il mezzo più potente per esplorare e fare proprie le risorse
del linguaggio e che l'acquisizione di queste risorse sia fondamentale per la
costruzione di una personalità creativa e l'espressione di un pensiero libero.»
(Chiara Carminati, Perlaparola bambini e ragazzi nelle stanze della poesia,
Equilibri)
E,
parlando di poesia, non posso fare a meno di leggere la
FILASTROCCA DEI BAMBINI IN SALITA
scritta da Bruno Tognolini per il libro-bibliografia sulla famiglia "Dipende da come mi abbracci", Libreria Tuttestorie e Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Cagliari, novembre 2007 e contenuta in Rime raminghe, Salani
Ci son bambini burattini stanchi
Che vivono una faticosa vita
Per strada, nelle camere, fra i banchi
Sono sempre in salita
Ogni frase da dire è una montagna
Da scalare fra picchi e scogli sparsi
Ogni passo con pena si guadagna
Per loro camminare è arrampicarsi
Fatica per vedere, fatica per sentire
Pesa un quintale un foglio preso in mano
Durissimo studiare, difficile capire
Il mondo è ripido, scosceso e strano
Ma la salita fa gambe muscolose
Loro non se ne sono mai accorti
Ma i burattini dalle vite faticose
Nascosti dentro hanno bambini forti
E tutti noi che siamo un po' il contrario
E il burattino è dentro, ben nascosto
Con loro abbiamo un modo straordinario
Per fargli prender aria, anche per poco
Facciamo qualche gioco
Che ci scambi di posto
Il potere delle persone
Antonino trascina sempre dietro di sé il suo pentolino.
Un giorno gli è caduto sulla testa… non si sa bene il perché.
Per via di questo pentolino, Antonino non è più come gli altri.
[...]
Fortunatamente esistono persone straordinarie.
Basta incontrarne una…
…per trovare la voglia di tirar fuori la testa dal pentolino.
Lei gli insegna a convivere con il suo pentolino.
Gli mostra i suoi punti forti.
Lo aiuta ad esprimere le sue paure.
E trova che ha molto talento.
Antonino ritorna ad essere felice.
Lei gli confeziona una saccoccia per il suo pentolino.
Poi si separano.
Il pentolino è sempre lì, ma è molto più discreto
… e soprattutto non si incastra più dappertutto!
Isabelle Carrier, Il pentolino di Antonino, Kite
“La Hampshire Country School si trova
in campagna, immersa nel verde di prati e boschi. Comprende una fattoria vera,
con mucche, maiali e cavalli di cui occuparsi. Le lezioni sono molto pratiche e
c’è un sacco di tempo per le attività all’aperto. È qui che Temple incontra Mr.
Carlock. È un insegnante di scienze che capisce molto presto quanto quella
ragazzina spigolosa sia portata per la sua materia, quanto sappia vedere al di
là di quello che vediamo tutti, quanto sia curiosa e intrepida. – Tutti hanno
bisogno di un mentore – dice Temple quando parla del suo passato e di Mr.
Carlock: ma vale anche per il presente e il futuro di chi la sta ascoltando.
Mentore: parola antica, che significa
guida e consigliere, prima di tutto è il nome di un personaggio dell’Odissea di
Omero, l’uomo di fiducia cui Ulisse affida suo figlio Telemaco ancora bambino
prima di partire per la guerra di Troia, da cui tornerà quando Telemaco di anni
ne ha venti. Tutti abbiamo bisogno di un mentore, di qualcuno che riconosca chi
siamo e ci aiuti a capirlo. È proprio questo che fa Mr. Carlock per Temple.
Di solito un mentore ci suggerisce
quali sono le materie o le attività in cui siamo più bravi, ci sostiene, ci
incoraggia. Mr Carlock è una delle prime persone ad accorgersi che Temple
possiede un di più dentro la testa, come se i cavi, i fili, i collegamenti del
suo cervello fossero più complessi e numerosi di quelli di una persona
qualunque, di una persona normale. Temple è diversa. Diverso non vuol dire inferiore.
Vuol dire diverso e basta.
Beatrice Masini, Siate gentili con le mucche La storia di Temple Gardin, Editoriale Scienza
Quanti
di noi hanno nel cuore un adulto, spesso un insegnante, a volte un allenatore,
un catechista, un educatore, che è riuscito a valorizzarne i talenti, invece
che a giudicarne le difficoltà? E per quanti di noi è stato l’incontro con
questa persona a fare davvero la differenza?
E
se questo è vero per chi vive la scuola, e più in generale la vita, in discesa,
o almeno non troppo in salita, quanto più si rivelerà fondamentale, essenziale,
direi, per chi ogni giorno deve sopportare un carico maggiore di fatica, da
qualunque difficoltà essa dipenda?
Il potere della vicinanza
Mi sono avvicinato, ma non troppo.
Il cuore mi batteva forte.
Poteva spararmi bava da un momento all’altro.
Elisa Mazzoli – Sonia Maria Luce Possentini, Noi, Bacchilega Junior
Molto
spesso, ciò che ci spaventa ha un potere maggiore proprio nella misura in cui
ci è sconosciuto. Ben lo comprendiamo, proprio attraverso la lettura di questo
bell’albo. Questa sorta di incantesimo si spezza nel momento in cui ci
avviciniamo a chi è diverso: certo, all’inizio continuiamo a mantenere una
distanza, per così dire, di sicurezza. Poi, una volta compreso di non correre
nessun pericolo, se non quello del cambiamento, allora l’incantesimo si
rovescia, e finiamo per rimanere avvinti da chi prima temevamo.
Il
potere della lotta agli stereotipi
I maschi sono forti, le femmine sono
deboli
I maschi sono stupidi, le femmine sono
intelligenti
I maschi sono rozzi, le femmine sono
sensibili
I maschi sono veloci, le femmine sono
lente
I maschi sono disordinati, le femmine
sono ordinate
I maschi sono sporchi, le femmine sono
pulite
I maschi sono superficiali, le femmine
sono profonde
[…]
Dall’introduzione
di Silvana Sola a Leggere senza stereotipi. Percorsi educativi 0-6 anni per figurarsi il
futuro, di Scosse, ed. settenove:
“Il dizionario alla voce “stereotipo”
recita così: modella convenzionale di atteggiamento o opinione precostituita,
generalizzata o semplicistica, che non si fonda sulla valutazione dei singoli
casi, ma si ripete in forma meccanica.
E lo stereotipo accompagna
affermazioni, gesti, determina comportamenti, annebbia gli sguardi e fornisce
una visione del mondo, delle persone e delle cose, falsata. Falsata, limitata,
chiusa tra parametri artificiosi che alterano la percezione del reale e
bloccano l’immaginazione.
Il libro è uno straordinario mezzo di
relazione capace di mettere in pagina tanti percorsi diversi, perché tante sono
le possibilità offerte ai bambini e alle bambine, e agli adulti che li
accompagnano, nel difficile percorso della crescita.”
Ed
ecco che l’educazione senza stereotipi, che passa anche attraverso i libri,
tanti e diversi, diventa strumento capace di garantire vera e concreta
inclusione per tutti.
Il
potere delle buone pratiche
Ho
lasciato per ultimo questo potere perché è il più semplice, alla portata di
tutti, e, io credo, tra i più efficaci.
Nel
corso degli anni, ho sviluppato una certa insofferenza verso progetti
altisonanti e dalle altissime finalità, a favore di una quotidianità meditata e
attenta.
Proprio
per questo, credo ci siano pratiche quotidiane che lavorano concretamente e
dalla base per costruire una vera inclusione:
l’attenzione
ai ritmi di ogni bambino, con un particolare rispetto verso chi ha tempi
lunghi;
il
coinvolgimento di tutti nelle discussioni (utilizzo spesso la tecnica di far
loro scrivere ciò che pensano, o semplicemente la risposta alla domanda fatta dall’insegnante,
su un foglietto, in modo che neppure i più insicuri possano rifugiarsi nel “già
detto” dei compagni ma debbano trovare le parole);
la
richiesta ai compagni di non alzare la mano quando un bambino/ragazzo sta,
magari faticosamente, cercando dentro di sé una spiegazione, una risposta (la
selva di mani alzate mentre tu stai ancora organizzando pensieri e idee dentro
di te credo sia quanto di più invasivo possa capitare ad un bambino, per non
dire di quanto possa minare la fiducia in se stesso);
un
linguaggio, da parte dell’insegnante, mai superficiale, ma sempre attento e
rispettoso delle identità di ciascuno, la valorizzazione di tutte le culture,
attraverso la scoperta di usi e tradizioni, ma anche dei diversi alfabeti,
delle diverse lingue, dei modi di dire;
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