Dalla Fiera di Bologna ho
portato molti libri. Ce n’era uno, però (il più piccolo, credo), che bramavo da
qualche giorno, e che ho l’urgenza di raccontare. Perché ho amato infinitamente
l’immagine di copertina.
Perché appartiene alla collana dei Topipittori Gli anni in tasca, autobiografie a cui in
questi anni ho attinto in molteplici modi, ad esempio qui e qui . Per il titolo
Non ero iperattivo, ero svizzero.
Storie rapidissime di ragazze e ragazzi
a cura
di Manuel Rossello, Topipittori
assolutamente geniale come
solo alcune frasi bambine sanno essere. E perché ho immaginato risuonare in
esso il lavoro di un insegnante che davvero sapesse ascoltare con attenzione e senza
giudizio ciò che ogni suo alunno avesse desiderio di raccontare.
I racconti sono volutamente
brevissimi, appena poche righe, e questo mi ha fatto ripensare alla smania che
spesso prende gli insegnanti riguardo la lunghezza delle produzioni dei
ragazzi. Conta davvero così tanto, e sempre, che i testi siano lunghi?
Risponde così Manuel
Rossello, insegnante di scuola media in Ticino, nella postfazione:
“La
brevità è la prima caratteristica che salta all’occhio (Nicola Galli Laforest
ha giustamente parlato di flash folgoranti). È ciò che ho richiesto loro,
fornendo dei foglietti per la prima stesura a mano, una schedina per ricordo. Ciò
ha permesso loro di concentrarsi sull’episodio scelto e di svolgerlo nella sua
interezza, ma al tempo stesso il poco spazio a disposizione li ha obbligati a
non dilungarsi. Anche in presenza di una competenza linguistica molto ridotta
(per esempio nel caso di alloglotti) possono scaturire esiti apprezzabili. La
brevità delle frasi è insomma un vincolo che può diventare un fatto stilistico.
Mi sono ritrovata dentro le
sue parole, e il suo lavoro, ed ho pensato alle nostre produzioni per Dentro
le quinte. Parole per un passaggio. Volutamente brevi, e volutamente
scritte in un tempo breve. Di questo libro ho amato molto anche l’uso, nelle
micronarrazioni, del passato remoto, che Paolo Di Stefano, nella prefazione,
racconta così: “[…] c’è qualcosa di
perturbante nel passato remoto utilizzato per raccontare un passato così necessariamente
prossimo all’io narrante, non potendo ancora contare su una profondità di vita
pluridecennale. Come una vertigine del tempo che dilatandosi a dismisura
avvolge il tutto in una luce di stranezza e di ironia. Una torsione cognitiva:
la letteratura ci aveva fatto conoscere il presente storico, non ancora il suo
esatto opposto: il trapassato vicino. In fondo è un modo per farci capire che,
sin dall’attimo stesso in cui la si abbandona, l’infanzia appare immediatamente
a distanza epica: non può che essere narrata come una nostalgia da recuperare o
come un fantasma da cui tenersi alla larga.”
Mi piacerebbe davvero che
questo libro entrasse, come gli altri della collana, nelle biblioteche
scolastiche, e in quelle personali degli insegnanti. Perché è la dimostrazione
che le ragazze e i ragazzi sanno scrivere. E lo sanno fare tanto più quanto è
vicino a loro ciò su cui sono chiamati a riflettere, condividere, narrare.
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