giovedì 26 gennaio 2017

I giorni della valutazione


(credit Come funziona la maestra, di Susanna Mattiangeli e Chiara Carrer, Il Castoro)



Per la maggior parte del tempo, vivo il mio lavoro con l’impressione di essere un’insegnante “sufficientemente buona”, adattando la definizione che Winnicot dava di una madre imperfetta, ma sana e affettivamente presente.
Poi arrivano i giorni della valutazione.

Molti ritengono ancora che per un insegnante la valutazione sia un privilegio. Io posso dire che per molti di noi è sempre una responsabilità, spesso una fatica, talvolta una sofferenza.
Che molti insegnanti sanno di essere i primi sottoposti a giudizio.
E che spesso il giudizio più severo è quello che ognuno dà su se stesso.

Leggo gli obiettivi riportati sul mio registro, e una miriade di domande mi invade.
Come faccio, ogni volta, a valutare la produzione e la comprensione orale, se sono impegnata ad ascoltare ognuno, a cercare collegamenti tra esperienze, a stimolare interventi, riflessioni, condivisioni? Come posso valutare racconti, esperienze, vissuti, di bambini che narrano racconti, esperienze, vissuti non per essere valutati, ma solo per condividere, riflettere, crescere?

Li ascolto leggere, li fermo, faccio loro domande sui contenuti, il contesto, il lessico.
Ma come posso ogni giorno segnare i voti per ogni risposta, giusta o sbagliata che sia? Come posso farlo, se nel frattempo sto dando al ragazzo il tempo per pensare ancora, riflettere - chiedendo al contempo ai compagni di non alzare la mano, perché a me, quelle selve di mani alzate mentre uno solo pensa e non riesce a rispondere subito fa pensare che se fossi io, quello a cui stan chiedendo qualcosa, mi si azzererebbe tutto nel cervello, la nebbia calerebbe su di me, e penserei di essere lo stupido del villaggio? E se la risposta prende una direzione imprevista, e le mani possono finalmente alzarsi per apportare il proprio contributo, e la conversazione prende nuove pieghe, nuove strade, infinite possibilità, come posso io fermare questo flusso, arrestare i pensieri, le parole dei ragazzi e dir loro: “Aspettate, devo mettere il voto a quel che state dicendo!”?

Sfoglio i quaderni, leggo le produzioni dei bambini e mi chiedo: quanto le insicurezze, gli errori, le difficoltà, che in alcuni casi appaiono ancora evidenti, possono dipendere dalle mie scelte didattiche? Quanto altri metodi, più rigidi e schematici, avrebbero potuto portare più vantaggi per tutti? O, al contrario, quando cerco di rinforzare le conoscenze ortografiche e grammaticali di base, e non utilizzo le nuove tecnologie, i tablet, la lim, sono solo una maestra di mezza età con delle resistenze verso la novità? E quando invece utilizzo gli albi, i libri, le letture, l’ascolto, la poesia, sto davvero facendo il bene dei miei ragazzi, o in questo modo sottraggo tempo ed energie ad attività che potrebbero rivelarsi più proficue?

E se ho ricercato in ogni modo l’inclusione per tutti, in particolare per ogni bambino in difficoltà (e le difficoltà possono essere le più svariate, e a volte richiedere competenze che non avevamo e che abbiamo dovuto costruirci nel cammino), sono riuscita nel contempo a offrire a tutti i bambini, ormai ragazzi, le migliori opportunità per conoscere, crescere, imparare? Oppure ho trascurato qualcuno per le necessità di altri?

Non sono domande retoriche, queste.
Non le ho scritte perché qualcuno mi risponda: “Va benissimo così, non preoccuparti, continua per la tua strada”.
Perché, se anche se lo facessero in tanti, io, come molti altri, continuerei a chiedermi se sto facendo abbastanza.


(credit Come funziona la maestra, di Susanna Mattiangeli e Chiara Carrer, Il Castoro)

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