(credit Come funziona la maestra, di Susanna Mattiangeli e Chiara Carrer, Il Castoro)
Per la maggior parte del tempo, vivo il mio lavoro con l’impressione di essere un’insegnante “sufficientemente buona”, adattando la definizione che Winnicot dava di una madre imperfetta, ma sana e affettivamente presente.
Poi arrivano i giorni della
valutazione.
Molti ritengono ancora che
per un insegnante la valutazione sia un privilegio. Io posso dire che per molti
di noi è sempre una responsabilità, spesso una fatica, talvolta una sofferenza.
Che molti insegnanti sanno
di essere i primi sottoposti a giudizio.
E che spesso il giudizio più
severo è quello che ognuno dà su se stesso.
Leggo gli obiettivi
riportati sul mio registro, e una miriade di domande mi invade.
Come faccio, ogni volta, a
valutare la produzione e la comprensione orale, se sono impegnata ad ascoltare
ognuno, a cercare collegamenti tra esperienze, a stimolare interventi,
riflessioni, condivisioni? Come posso valutare racconti, esperienze, vissuti,
di bambini che narrano racconti, esperienze, vissuti non per essere valutati,
ma solo per condividere, riflettere, crescere?
Li ascolto leggere, li
fermo, faccio loro domande sui contenuti, il contesto, il lessico.
Ma come posso ogni giorno segnare
i voti per ogni risposta, giusta o sbagliata che sia? Come posso farlo, se nel
frattempo sto dando al ragazzo il tempo per pensare ancora, riflettere -
chiedendo al contempo ai compagni di non alzare la mano, perché a me, quelle
selve di mani alzate mentre uno solo pensa e non riesce a rispondere subito fa
pensare che se fossi io, quello a cui stan chiedendo qualcosa, mi si
azzererebbe tutto nel cervello, la nebbia calerebbe su di me, e penserei di
essere lo stupido del villaggio? E se la risposta prende una direzione
imprevista, e le mani possono finalmente alzarsi per apportare il proprio
contributo, e la conversazione prende nuove pieghe, nuove strade, infinite possibilità,
come posso io fermare questo flusso, arrestare i pensieri, le parole dei ragazzi
e dir loro: “Aspettate, devo mettere il voto a quel che state dicendo!”?
Sfoglio i quaderni, leggo le
produzioni dei bambini e mi chiedo: quanto le insicurezze, gli errori, le
difficoltà, che in alcuni casi appaiono ancora evidenti, possono dipendere
dalle mie scelte didattiche? Quanto altri metodi, più rigidi e schematici, avrebbero
potuto portare più vantaggi per tutti? O, al contrario, quando
cerco di rinforzare le conoscenze ortografiche e grammaticali di base, e non
utilizzo le nuove tecnologie, i tablet, la lim, sono solo una maestra di mezza
età con delle resistenze verso la novità? E quando invece utilizzo gli albi, i
libri, le letture, l’ascolto, la poesia, sto davvero facendo il bene dei miei
ragazzi, o in questo modo sottraggo tempo ed energie ad attività che potrebbero
rivelarsi più proficue?
E se ho ricercato in ogni
modo l’inclusione per tutti, in particolare per ogni bambino in difficoltà (e
le difficoltà possono essere le più svariate, e a volte richiedere competenze
che non avevamo e che abbiamo dovuto costruirci nel cammino), sono riuscita nel
contempo a offrire a tutti i bambini, ormai ragazzi, le migliori opportunità
per conoscere, crescere, imparare? Oppure ho trascurato qualcuno per le
necessità di altri?
Non sono domande retoriche,
queste.
Non le ho scritte perché qualcuno
mi risponda: “Va benissimo così, non preoccuparti, continua per la tua strada”.
Perché, se anche se lo
facessero in tanti, io, come molti altri, continuerei a chiedermi se sto facendo abbastanza.
(credit Come funziona la maestra, di Susanna Mattiangeli e Chiara Carrer, Il Castoro)
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