Siamo partiti cantando
Etty Hillesum, un treno,
dieci canzoni
di
Matteo Corradini, illustrazioni di Vittoria Facchini, rueBallu
è, come tutti i libri della
collana Jeunesse ottopiù, così bello - quasi un oggetto d’arte - che temi,
aprendolo, di rovinarlo.
Eppure, bisogna proprio
aprirlo, questo libro, e leggerlo, e farsi catturare al punto da continuare a
leggere, a conoscere questa giovane donna, di cui colpisce – credo anche grazie alla
bravura di Matteo Corradini – la capacità di sperare nell’uomo, nonostante
tutto.
C’è un ritornello, che da ieri risuona dentro di me:
Ritornello
Ho
voluto essere il cuore della baracca. A Westerbork ho provato ad aiutare chi
aveva bisogno, ma soprattutto ho provato ad ascoltare, a prendere le parole
degli altri e a donare le mie. Avrei voluto essere un cuore pensante.
Prendere le parole degli
altri e donare le proprie. Forse basta questo a restituirci l’umanità.
«Mi
chiamo Etty, sì. Mi chiamavo Etty anche quando passeggiavo per la campagna, da
bambina, ma il contadino non sapeva il mio nome. Quale contadino? Quello a cui
rubavo le ciliegie. Non lo sapeva perché avrebbe semplicemente urlato il mio
diminutivo nell’aria, vedendomi da lontano tra i rami del suo albero.
Sotto
un albero ho dato il più bel bacio della mia vita. Ci eravamo seduti là sotto,
io e Julius. Ci guardavamo da tanto tempo, da troppo, così lui si è voltato più
forte verso di me e mi ha baciata. Un bacio a cui ho risposto subito, e
volentieri. Quel giorno era così bello che nessuna bella parola lo avrebbe reso
migliore. Era così bello che non ci serviva arrampicarci per sentirci parte del
cielo. Tornata a casa, ho preso un quaderno e ho cominciato a scrivere il mio diario
più importante. Me lo aveva suggerito Julius: sapeva che mi avrebbe fatto bene
come una ciliegia rubata o un panorama visto dall’ultimo ramo. O come un
bacio».
Ho letto il libro in un pomeriggio, poi, nuovamente, di sera. L'ho riletto dopo essermi gustata, parola per parola, il bellissimo articolo che Elisabetta Cremaschi sul suo Gavroche dedica a Etty Hillesum, alla sua biografia, e, soprattutto, ai suoi imperativi morali: su tutti, il costante e fermo bisogno di non odiare.
15 marzo, le nove e mezza di mattina
Ho letto il libro in un pomeriggio, poi, nuovamente, di sera. L'ho riletto dopo essermi gustata, parola per parola, il bellissimo articolo che Elisabetta Cremaschi sul suo Gavroche dedica a Etty Hillesum, alla sua biografia, e, soprattutto, ai suoi imperativi morali: su tutti, il costante e fermo bisogno di non odiare.
15 marzo, le nove e mezza di mattina
"[...] Ieri pomeriggio abbiamo scorso insieme le note che mi aveva dato. Quando siamo arrivati alla frase : basta che esista una sola persona degna di essere chiamata tale, per poter creder negli uomini, nell'umanità, m'è venuto spontaneo buttargli le braccia al collo. È un problema attuale: il grande odio per i tedeschi che ci avvelena l'animo. Espressioni come: «che anneghino tutti, canaglie, che muoiano col gas», fanno ormai parte della nostra conversazione quotidiana; a volte fanno sì che uno non se la senta più di vivere di questi tempi. Ed ecco che improvvisamente, qualche settimana fa, è spuntato il pensiero liberatorio, simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto d'erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest'unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero".Dal Diario, Adelphi
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