"Boasce –
in italiano boasse o bovazze o bovasse – sono quelle grandi torte marroni che le mucche lasciano
cadere a terra in una lunga sequenza intermittente, tenendo alta la coda e
guardando il mondo dritto negli occhi, con calma sovrana.
Si presentano molli ma anche
secche, fresche ma anche stagionate; disperse nei prati ma anche ammucchiate
fuori dalle stalle in montagnole ora fumanti di letame nuovo, ora deposito di
prezioso humus e concime per zucche e zucchine che le decorano di arabeschi
verdi a fiori gialli.
Raccolte in unica massa, ma
anche disseminate via via in file regolari sui tragitti degli spostamenti della
mandria dalla stalla all’abbeveraggio, da prato a prato a stalla, le boasce facevano stabilmente parte del
mio paesaggio quotidiano, tranne che sulla strada principale, l’unica che
attraversava il paese dalle prime case alle ultime."
QUARENGHI G., Io sono il cielo che nevica azzurro, Topipittori
Come potranno mai conciliarsi le boasce con la poesia?
Oh, certo che possono. E non solo per me, che nelle vivide descrizioni di Giusi Quarenghi rivivo la mia infanzia, in alcune istantanee tale e quale a quella da lei magnificamente narrata: la benedizione delle bestie e del sale il 17 gennaio (Sant'Antoni del purscel), l'è fò genèr, l'è scià fevrèr (da noi si chiama genèr in feurèr), le rogazioni a primavera, per San Marco, con la levataccia mattutina, [...] e scuoti le campane, lancia fischi, fai girare i grilli di legno per dare alla notte la voce dell'estate, e ancora, all'inizio dell'estate, cargà muntagna.
Poesia. Bastano poche parole, già alla seconda pagina "[...] a garantire che l'estate, un'altra, tanto nuova quanto uguale alle precedenti, sarebbe arrivata, era già lì..."
Come non riconoscersi in questa frase? Come non ripensare a tutte le estati della nostra infanzia, ogni volta così nuove e ogni volta così uguali?
E parlando di "fatte" (i ragazzi sanno bene come si chiamano le cacche degli animali), siamo arrivati addirittura a citare De Andrè:
[...]
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.
Fabrizio De Andrè, Via del Campo
Se non è poesia questa...
Io sono il cielo che nevica azzurro
In questo albo l’argomento è esibito, ripetuto, per la gioia dei bambini che vedono salire la montagna di cacche fino al cielo e sentono ripetere CACCHE CACCHE CACCHE allo sfinimento.
Ed ecco altri libri sulla cacca:
Prima che parlare di cacca diventasse una moda, c’era
SOLO questo albo illustrato: l’ho conosciuto a un corso, presentato dalle
ragazze di un gruppo che faceva animazione teatrale nelle scuole, almeno
vent’anni fa. È stato amore a prima vista, soprattutto perché all’epoca
lavoravo alla scuola dell’infanzia, e leggere libri che parlavano di cacca
significava toccare un argomento quanto mai concreto, oltre che delicato.
Negli anni mi sono specializzata nell’imitare la
parlata degli animali (credo di essere quasi perfetta in quella lenta,
strascicata e mugghiante della mucca – saranno le origini montanare?), e ogni
volta assisto con meraviglia al miracolo che si verifica anche nella classe più
scalmanata quando la narrazione cattura proprio tutti i bambini: in certi
contesti la parola miracolo è quanto mai appropriata!
Una sera la
piccola Talpa mette la testa fuori dalla tana, e in quel momento
succede l’irreparabile.
Chi sarà il
responsabile? E come vendicarsi?
Come
incomincia:
“Una sera
quando, come al solito, la piccola Talpa mise la testa fuori dalla
tana per controllare se il sole se n’era andato, ecco cosa successe: era
rotondo e marrone – pareva un po’ una salsiccia – e il peggio fu che le cadde
proprio in testa – splic.”
HOLZWARTH W.
E ERLBRUCH W., Chi me l’ha
fatta in testa?, Salani editore
In questo albo l’argomento è esibito, ripetuto, per la gioia dei bambini che vedono salire la montagna di cacche fino al cielo e sentono ripetere CACCHE CACCHE CACCHE allo sfinimento.
Nel secondo, invece, “Pina
la mosca”, di Gusti, Il Castoro, la cacca fa la sua comparsa, in maniera assolutamente imprevedibile,
solo alla fine; ed è un’autentica sorpresa anche per i lettori più sgamati.
L’ultimo, “Il
gigante Gambipiombo”, di Fabian Negrin, Orecchio Acerbo, non parla di puzze solide ma gassose; “scorregge”,
le chiama, con il nome che tanto fa ridere i bambini (e anche qui, il suono
duro C la fa da padrone, insieme alla roboante R, tanto più che il gigante va a
caccia di oche, scambiandole addirittura per cammelli)
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