sabato 28 aprile 2018
venerdì 20 aprile 2018
Apedario ha 5 anni
Apedario compie oggi 5 anni,
ed è significativo che a ricordarmelo sia stata Elisabetta Cremaschi, una delle
persone più importanti per questa mia "vita altra"; il suo contributo
sarà presto visibile in una pubblicazione che attendo, attendiamo, davvero con trepidazione.
Apedario ha cinque anni. È piccolo,
ma per me, per tanti anni maestra di scuola dell’infanzia, 5 anni è l’età dei
grandi. E così mi piace pensare che Apedario sia grande come ciò che ha permesso si realizzasse nella mia
vita.
Ci sono davvero molti motivi per cui essergli grata: le molte persone che senza di esso non avrei conosciuto, in molti casi solo virtualmente, in altri anche di persona, e da cui continuo ad imparare; la possibilità, e la spinta, a riflettere sulle parole e sulle immagini, coinvolgendo le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi, in questo inesausto percorso di ricerca di senso e bellezza; le diverse opportunità di mettermi in gioco, come docente appassionata di albi e letteratura, e di incontrare così splendidi collegh*, con cui condividere momenti davvero imperdibili; poter guardare negli occhi autori di fama mondiale, ricambiare un sorriso, ascoltarne la voce. Tutto questo, grazie al blog.
Così ho pensato he non
potesse esserci modo migliore, per festeggiare, che scegliere un libro, e la relativa attività, tra i più significativi per ogni
anno della sua vita, ovvero per ogni anno di scuola vissuto fino ad oggi con le bambine e i bambini.
Aprite i
link: sarà il più bel regalo di compleanno che Apedario ed io possiamo
ricevere.
Per la 1^, Federico, di Leo
Lionni, Babalibri
per la 2^, Lupo Sabbioso L'incontro di Asa Lind e Alessandro Sanna, Boheme
per la 3^, Di qui non si passa!, di
Isabel Minhós Martins
e Bernardo P. Carvalho,Topipittori
per la 4^, ABC dei popoli, di Liuna Virardi, Terre di mezzo
per la 5^, Un posto silenzioso, di Luigi Ballerini e Simona Mulazzani, Lapis
mercoledì 18 aprile 2018
Prendersi cura, e poi lasciar andare
Oggi è l’ultimo giorno, di
questi cinque anni, dedicato ai colloqui individuali. Che, lo devo dire, a
volte non sono facili, altre ti procurano dei veri e propri dolori, ma per la
maggior parte sono davvero la prova che famiglie e insegnanti costruiscono
insieme, e insieme accompagnano, sostengono, lasciano andare.
Ed è proprio sul necessario
lasciar andare -avendo avuto cura, prima, di aver aiutato ogni bambina e ogni
bambina a padroneggiare gli strumenti necessari per camminare in autonomia- che
mi pare bello, e giusto, riprendere in mano il libro che più di ogni altro,
in questi anni, mi sembra parlare di questo ad ogni adulto che dei bambini si
prenda cura.
Prendersi cura, e poi
lasciare andare. Credo che il compito di ogni adulto, nei confronti dell'infanzia, stia tutto in queste parole.
Scrivevo, ormai quasi tre anni fa:
Lunedì 7 settembre 2015
Apro il libro. La risguardia è ordine e
delicatezza: gli alberi si stagliano puliti sul fondo chiaro, dove i sentieri
formano una trama semplice e garbata.
Questa sobrietà, questa pulizia,
continuano anche su colophon e frontespizio, dove nuovi alberi, di forme e
colori diversi, sono al centro della scena, mentre autori ed editore sembrano
ritrarsi per far spazio all'immagine.
Giro pagina, e mi ritrovo, attratta come
sono dalle parole e dalla forma che assumono sulla pagina quanto dalle
immagini, già rapita dal susseguirsi di due parole:
E dentro
C'era una volta l'infinito.
E dentro l'infinito c'era una galassia.
E dentro la galassia c'era un pianeta.
E dentro il pianeta c'era un continente.
E dentro il continente c'era uno stato.
E dentro lo stato c'era un paese.
E dentro il paese c'era una collina.
E sopra la collina c'era un castello.
E in quel castello c'era una stanza.
E in quella stanza c'era un principe.
Principe Beniamino.
Immagino i visi e le espressioni dei
bambini mentre leggerò queste righe, e prendo nota del fatto che, mentre leggevo,
molti pensieri diversi mi hanno attraversato la mente: ma quello che non devo
assolutamente dimenticare è che questo incipit è perfetto per riprendere con i
miei bambini la grammatica, e con essa la distinzione tra articoli
indeterminativi e determinativi.
Cosa c'è di più chiaro di l'infinito
che contiene una galassia, una tra le tante?
Ma poi, una galassia diventa
la galassia, perché è proprio quella che ci interessa, una
sola tra le tante, e dentro la galassia c'è un
pianeta, che nel verso successivo (verso, certo, perché questa prima
pagina non è nient'altro che poesia, o filastrocca, in ogni caso un luogo in
cui il ritmo e il suono delle parole concorrono in modo essenziale al loro
significato) diventa a sua volta, ormai è chiaro, il pianeta. E
così via.
E poi dentro, sopra, quello,
quella. E la corretta scrittura di c'era.
E Principe Beniamino, alla fine della
pagina, un verso solitario, diviso dalla strofa precedente, e senza articolo,
neppure quello determinativo – però con due maiuscole (vi ricordate,
bambini, quando si usano le maiuscole?).
La grammatica, dicevo, certo. Perché la
amo, perché dà forma e significato alla parola. Perché, per fortuna o
purtroppo, raramente dimentico di essere una maestra, e da maestra ho sempre
fatto grammatica a partire dai libri e dai testi letti in classe, senza mai
dividere la riflessione linguistica dalla lettura e dalla scrittura, e
possibilmente su un unico quaderno, perché tutto sia unito, collegato.
Ma il libro prosegue, e le parole mi
hanno distolto dall'immagine successiva: solo ora forse posso capire perché la
ricerca di quella speciale tonalità di rosso sia stata così complessa.
Giro nuovamente pagina, ed eccolo,
Principe Beniamino.
Anzi:
C'era una volta Beniamino.
Un bambino, un bambino come tutti, anche
se nato da una Reginamamma e un Repapà. Un bambino fortunato, non tanto perché
Principe, ma perché potrà crescere e imparare “[...] le cose. E le parole musica delle cose, e le parole che
fanno le cose.”
Non posso impedirlo: penso ai tanti,
troppi bambini che non potranno crescere, non potranno imparare. A quelli che
hanno avuto almeno l'onore del ricordo, e del cordoglio del mondo, perché
divenuti simbolo, e ai tanti, troppi, di cui non conosceremo mai il nome.
Beniamino cresce, e con le parole crea
il mondo: il suo e quello dei suoi genitori, che per la felicità cavalcano,
danzano, piantano un albero d'olivo, si tuffano
fanno posto nel lettone, spalancano
porte, ridono. E poi, quando Beniamino è pronto, dopo una festa grande quanto
quella per la sua nascita, Reginamamma e Repapà di fermano e...
“In quell'istante che era dentro un
minuto.
E in quel minuto che era dentro un'ora.
E in quell'ora che era dentro un giorno.
[...]”
Non posso proprio svelarvi il finale:
posso solo dirvi che è il finale perfetto.
martedì 10 aprile 2018
Non solo albi, ovvero Io sono, io sono, io sono
Il taccuino di X mi interroga, e mi chiama in causa.
“Faccio fatica a controllarmi
quando mi dicono di scrivere di più, ma se nella mia testa ho solo quello, cosa
posso farci?”
Quel “mi dicono” in
realtà è una terza persona singolare, e ha un soggetto preciso, benché
sottinteso. Quel soggetto è lei, e
sono io.
Sono io che le chiedo, quasi ogni volta, prima semplicemente a
voce, da qualche tempo anche scrivendole, di mettere sulla carta tutto quel che
pensa, o sente, perché ci tengo davvero a conoscerlo. Sono io che insisto,
perché intravvedo, dietro alle altre sue competenze, anche una ricchezza che
lei ancora non sa, o non vuole svelare.
Anche Y scrive:
“Non riesco a controllarmi quando
sono arrabbiato, a scuola quando mi arrabbio inizio a fare i commenti per fare arrabbiare
la maestra.”
È vero: Y spesso mi provoca con i suoi continui commenti.
Interviene di frequente senza alzare la mano, nonostante continui a ricordargli
che sono in 28, e se tutti facessero come lui sarebbe davvero il caos. Lo fa di
proposito. Non lo dico io. Lo dice quel per
che ha usato, credo in modo assolutamente consapevole. Lo fa di proposito,
anche se riconosce da parte sua una mancanza di controllo.
E anche qui, mi chiedo, perché mi fa arrabbiare, se so che è
solo, da parte sua, una richiesta di attenzione, di ascolto? Un modo per dirmi “Ci sono, dammi tempo, dammi spazio”?
Ancora una volta, è la letteratura a permettere alle
ragazze e ai ragazzi di usare la scrittura in modo personale, autentico,
critico, nei confronti di se stessi e degli altri.
Questa volta, però, è un
brano da un libro per grandi, uno tra quelli che ho letto durante le vacanze e che
scelgo di leggere loro, ad alta voce, per riconoscere insieme a loro che a volte è proprio difficile, se non impossibile, mantenere
il controllo.
“È ancora una bambina difficile?”
chiedevano i parenti con aria diffidente. Mezz’ora in mia compagnia e avevano
la risposta.
“Non la provocate” raccomandavano
i miei genitori alle mie sorelle, e a me dicevano: “Devi imparare a
controllarti”.
Ci provavo. Ricordo di averci
provato. Ricordo di aver pensato che non dovevo innervosirmi, non dovevo
perdere la calma, dovevo soprattutto mantenere il controllo. Mi guardavo allo
specchio e atteggiavo il viso a un sorriso pacato ripetendo la parola docile tra me e me. Dovevo averla letta in
un libro. Era così che volevo essere, che sapevo di dover essere. Era così che
erano i bravi bambini, docili. Poi, però, mi dicevano di mettermi un certo
maglione di un oltraggioso color senape, con il collo che pizzicava e mi faceva
prudere la pelle in modo insopportabile, e per cena c’erano di nuovo patate
lesse, quanto odiavo l’esterno farinoso e l’interno duro e pieno di amido. Un
bicchiere di latte mi aspettava al mio posto ed ero terrorizzata all’idea di
berlo, con quella consistenza viscida e sinistra che mi foderava l’esofago, le
spirali di schiuma giallastra in superficie, le bollicine perlacee sul bordo.
Mentre pensavo a tutte queste cose, magari succedeva un fatto trascurabile,
innocuo – un commento o uno sguardo di mia sorella, un piede che urtava il mio
mentre cercavo di leggere, una pagina di compiti di matematica che sembrava
infinita, incomprensibile e soporifera – e scattavo. Sentivo esplodere qualcosa
nel petto, mi affluiva un gran calore alla testa, strillavo all’improvviso,
forse pestavo i piedi. Controllo perso. Altro che docile.
Maggie O’Farrell, Io sono,
io sono, io sono, Guanda
“Io
non riesco a controllarmi quando cresco, perché sento che il mio carattere
cambia e divento più cattiva”
“Non
riesco a controllarmi quando mi arrabbia, non si nota ma se mi arrabbio
spaccherei il banco”
Com'è difficile, a volte, l'infanzia. Com'è faticosa, per
alcuni, con le richieste adulte, a volte incomprensibili, spesso impossibili.
Mi chiedo, ancora una volta, perché io sia così attratta da
questo periodo della vita. Non può essere solo per il lavoro che faccio.
Perché, dei libri che leggo, spesso mi rimane impresso ciò che
all'infanzia appartiene, e pertiene, ciò di cui le siamo debitori, o creditori?
Come sempre, sono ferma alle domande. Le risposte, chissà se
arriveranno.
Una cosa, però, penso di saperla: la scrittura, spesso, è la cura.
Una cosa, però, penso di saperla: la scrittura, spesso, è la cura.
martedì 3 aprile 2018
In mezzo, ovvero la naturale condizione dell'esistere
IN
MEZZO
Quelli
piccoli sanno
di
minestrina
astucci
in plastica
gomma
da
cancellare
e di
sono come
tu
mi vuoi
Quelli
grandi sanno
di
sudore
scarpe
da ginnastica
gomma
da
masticare
e di
non saremo mai
come
voi
E in
mezzo
in
bilico
tra prima
e poi
ci siamo noi.
Chiara Carminati, {Viaggia
verso} poesie nelle tasche dei jeans, Bompiani
La prima volta che ho letto
questa poesia, tratta dal nuovo, bellissimo libro di Chiara Carminati, non ho
potuto fare a meno, nella logica di maestra di quinta da cui sono completamente
pervasa, che quei piccoli con l’odore di minestrina, astucci in plastica e gomma
da cancellare fossero i primini (anche se il “sono come tu mi vuoi” avrebbe dovuto fin da subito farmi
riflettere); mentre i grandi sono, indubitabilmente, molti dei nostri di
quinta.
Solo ad una nuova rilettura
più attenta, questa mattina, ho pensato che i piccoli sono più piccoli: non tanto
per gli odori, quanto, invece, proprio per quell’adesione e conformazione quasi
totale ai desideri e alle aspettative dell’adulto. Quei desideri e quelle
aspettative da cui è necessario affrancarsi, a cui ribellarsi, in una stagione
che, a dispetto di quelle tradizionali, inizia sempre prima, sempre troppo
presto rispetto alla maturità dei corpi, dei pensieri, dei sentimenti.
E in mezzo?
In mezzo “ci siamo noi”. E c’è uno spazio, prima
dell’inizio del verso. Uno spazio piccolo, tre battute appena, credo. Ma è uno
spazio al cui interno si svolge tutta una crescita, un infinito passaggio, in
cui ci tocca, adulti, essere presenza viva e attenta, seppur discreta.
Compito difficile, ma quanto
mai necessario. Siamo tutti, sempre, in mezzo, ovvero nella naturale condizione dell'esistere.
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