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martedì 17 luglio 2018

CUSHLAMOCHREE! o Delle infinite possibilità


CUSHLAMOCHREE!

Da qualche giorno, questa parola mi ossessiona.
L’ho scoperta sull’ultimo Linus: anticipata dall’editoriale di Igort e raccontata da Chris Ware nell’articolo Crockett Johnson e la linea chiara, dal primo istante in cui l’ho letta CUSHLAMOCHREE! ha cominciato a interrogarmi.



Perché non riuscivo a togliermela dalla mente? Perché mi faceva sentire, fortissimo, il desiderio di scriverne?

Forse per via della sua quasi intraducibilità* nella lingua italiana (Igort scrive: “[…] Cosa vuol dire cushlamochree? Battito del mio cuore. Questo vuol dire, accidenti.”). Forse per il suo suono: sono particolarmente sensibile all’effetto che le parole producono alle mie orecchie, oserei dire sotto pelle, tanto che, a volte, mi ritrovo a sussurrarle, mentre leggo silenziosamente. Le sussurro -le provo, direi-, e mi immagino il loro effetto sui volti delle bambine e dei bambini che dalla mia voce le ascolteranno (si smette mai di essere maestri?). Forse perché, come scrive Chris Ware, in Barnaby, protagonista dell’omonima striscia di Crockett Johnson, è immediatamente riconoscibile quell’Harold che, con la sua matita viola, disegna il mondo, lo interpreta e lo piega al suo volere. 













Quello stesso Harold che le mie alunne, i miei alunni e io conosciamo fin da quando insegnavo alla scuola dell’infanzia.

CUSHLAMOCHREE! mi pare abbia il suono dei tentativi, finanche maldestri, che ognuno di noi compie per affermare se stesso e la propria identità in relazione agli altri, nella misura in cui gli altri lo vedono e credono in lui; qui, in particolare, in relazione a un bambino che, come Calvin, non smette per un solo istante di credere nel sogno e nella fantasia. E se io, piccina, non ho avuto accesso a libri d’autore o alla cultura “alta”, so però con assoluta certezza di aver incontrato, come Barnaby, Fate Madrine -e Fati Padrini- che mi hanno permesso, nonostante un’infanzia molto semplice e sicuramente non benestante, di poter sempre contare sulle storie e sui libri: li ho avuti con me da piccola e ho continuato a incontrarli nel corso della mia vita, cercandoli come un assetato cerca l’acqua.

Forse solo in questo modo ho potuto realizzare quel che altrimenti avrei potuto soltanto immaginare.

Ci sono molte cose che fin dall’infanzia non so, e che fin dall’infanzia so di non sapere.
Ma a volte penso che sia meglio così: perché davvero non finirò mai di scoprire, e di imparare.

*A proposito di intraducibilità: Lost in translation 









mercoledì 9 novembre 2016

Mercoledì al cubo (22): Leo Una storia di fantasmi



Mi piace sempre molto scrivere di un libro mentre, per la prima volta, lo osservo, lo annuso, lo sfoglio, lo leggo.


Ho comperato

Leo 
Una storia di fantasmi


di Mac Barnett e Christian Robinson, Terre di mezzo


solo un paio d’ore fa.
È qui, accanto a me, pronto a svelarmi le sue meraviglie.

Una sagoma bambina, disegnata e ritagliata da mani che sembrano bambine, e due palloncini, uno rosso e uno blu, ad accompagnare la L iniziale del nome con una e e una o bianche.
La copertina, una sorta di lavagna nera striata di quel che pare gesso blu. Non righe vere e proprie; piuttosto, quel che rimane dopo una cancellatura frettolosa.

Le risguardie sono dello stesso blu che in copertina appare cancellato; ma questa volta i disegni sono bianchi: draghi, castelli, cavalli e cavalieri, scudi e corone, una cassa del tesoro…
Giro pagina; e del protagonista trovo solo una parte di braccio e gamba. Il resto è oltre il muro. Subito, sulla destra, una porta: presto, entriamo.


Questo è Leo.
La maggior parte delle persone
non riesce a vederlo.


Neppure io. Guardo e riguardo più attentamente. Non c’è.
Solo, sulla tappezzeria, tre strappi.

Giro ancora la pagina



Ma tu sì.
Leo è un fantasma.


Oh! Non sono più un io. Ora sono un tu. E ora anch’io lo posso vedere, accoccolato sotto il tavolino, con un libro in mano.

Giro la pagina


Per molti anni Leo visse da solo
in una casa ai margini della città,
leggendo libri e disegnando
nella polvere.


 


Giro ancora una pagina


Un giorno di primavera, in quella casa si trasferì una famiglia.


Mi fermo. Attendo. Non voglio girare subito, un'altra volta, pagina.
Voglio provare (farei lo stesso se stessi leggendo il libro in classe) a immaginare cosa stia per succedere.

So già – l’ho visto nella doppia pagina – che in famiglia c’è un bambino.
Sarà l’unico ad accorgersi della presenza di Leo. Diventeranno amici. Gli adulti liquideranno quest’amicizia come fantasia.

Giro la pagina.


Oh! Ho sbagliato tutto.





Leo non è costretto: Leo, sapendo di non essere ben accetto, decide di andarsene dalla propria casa.


 


Il mondo non è più come lo ricordava.
Ma i bambini forse sì. 

Qui la versione delle Briciole
Qui quella di Scaffale Basso