Con piacere, a pochi giorni dall'inizio del nuovo anno scolastico, pubblico il testo dell'articolo apparso sul numero di maggio della rivista Bambini.
La continuità dello sguardo
Quando sento parlare o
rifletto sulla continuità, mi piace pensare che essa sia, prima di tutto, continuità
dello sguardo. Per cominciare, dello sguardo degli adulti, che dei bambini
prima, e dei ragazzi poi, si occupano. Siamo ormai abituati, da decenni, a
svariate e più o meno significative attività che favoriscano la continuità tra
i diversi ordini di scuola. Attività senz’altro utili e lodevoli, ma che, per
quanto intense e significative, rischiano di risultare sfilacciate ed evanescenti
se slegate da un vero progetto organico e non intessute da uno sguardo
condiviso sui reali e concreti soggetti: le bambine e i bambini, le ragazze e i
ragazzi che ci sono affidati.
Proprio per questo, mi pare
di poter dire che lo sguardo sia l’ordito su cui tessere la trama delle
necessarie osservazioni che ogni bambina e bambino, ogni ragazza e ragazzo
richiedono. E proprio la capacità di osservare – oltre e al di là di griglie e
rubriche - è una delle grandi eredità
che 17 anni di ruolo nella scuola dell’infanzia mi hanno lasciato. Un’eredità
che purtroppo rischia facilmente di disperdersi, se non continuamente
esercitata; e, soprattutto, se soffocata dall’ansia da raggiungimento di
standard di competenze e prestazioni.
Lo sguardo degli adulti
sulle bambine e sui bambini, sulle ragazze e sui ragazzi, quindi. Ma poi, lo
sguardo da cui, senza dubbio, tutto ha inizio: il loro sguardo. Uno sguardo
sugli oggetti, sulle persone, sulla realtà, sul mondo; uno sguardo che passa, a
mio parere in modo necessario, anche attraverso i libri, ed in particolare gli
albi illustrati. In questa pratica, essi diventano strumenti privilegiati,
mediatori di senso e bellezza attraverso cui osservare, interrogare,
raccontarsi e provare a spiegare la realtà, il mondo, le cose, se stessi e gli
altri.
"E se l'arte e la letteratura sono state da sempre, in generale, le
forme espressive attraverso le quali l'uomo ha potuto cercare di conservare e
coltivare la sensibilità a rischio nel mondo esterno degli affari e delle cose
da fare, la letteratura per bambini si è rivelata, da un certo momento in poi,
come il tentativo per eccellenza di preservare (non solo per il bambino a cui è
rivolta, ma per tutti noi), quello che altrimenti poteva essere perduto: il
contatto con l'anima del mondo, e con una parte essenziale del sé. [...] Se
l'uomo ha trasformato il mondo naturale in un mondo puramente materiale, cioè
ha smesso di percepirlo come un mondo dotato di anima per poterlo manipolare e
sfruttare a proprio vantaggio, il bambino ri-anima il mondo, lo guarda con
rinnovato incanto, con un tipo di sguardo che sa percepire insieme il visibile
e l'invisibile."
Giorgia
Grilli, Bambini, insetti, fate e Charles
Darwin, in "La letteratura invisibile Infanzia e libri per bambini",
Carocci editore, 2011
Se ripenso a me bambina,
credo di poter dire che il libro sia sempre stato questo: la possibilità di guardare
il mondo con rinnovato incanto, e di vivere avventure altrimenti
inimmaginabili, di immedesimarmi nella personalità e nelle vite dei
protagonisti, di trovare un amico e un compagno anche dove, e quando, non ce
n’erano altri.
Se penso invece a cosa mi
porto, in continuità tra i miei anni alla scuola dell’infanzia e quelli alla
primaria, la prima risposta è probabilmente il rifiuto per fotocopie e
“lavoretti”. Già allora, mi sembravano attività che svuotassero di significato,
e soprattutto di bellezza, le vere capacità, il lavoro vero e intenso, delle
bambine e dei bambini. La rincorsa al fare, e al fare tutti uguali - spesso con
l’intervento marcato ed evidente dell’insegnante – mi pareva sminuire in modo
fortissimo la portata del sapere e del saper fare bambino. Non era questo che
volevo, nella mia sezione. Volevo – volevamo - che ci fossero tempo e spazio
per il gioco, il movimento, la conversazione, le attività grafiche e di
manipolazione. Ci piaceva, soprattutto, che ci fosse sempre tempo per la
narrazione e la lettura. Due momenti simili, anche se distinti: c’erano fiabe
che facevano ormai parte del patrimonio condiviso (una su tutte, Gianni Testa
Fina, dei Grimm) e che raccontavo a memoria, badando a non sbagliare neppure un
aggettivo, un sospiro, una pausa, pena il sussulto di chi, attentissimo, non avrebbe
mancato di farmelo notare.
E c’era la lettura: sempre a
terra, nel nostro angolo, tutti assiepati sul tappeto davanti a me, e tutti
attenti. C’è una figura a cui devo molto, del mio amore per i libri prima, e
della mia competenza poi, e che a lungo ci ha accompagnato proprio in quegli
anni: la dottoressa Paola Senucci, all’epoca psicopedagogista del nostro
Istituto. Ricordo bene i suoi interventi, ma soprattutto i suoi corsi
d’aggiornamento, le bibliografie, i saggi consigliati.
E poi c’erano loro, le
bambine e i bambini: “Ci fai vedere le figure?”, chiedevano ogni volta.
E così, giravo l’albo verso di loro e mi esercitavo nella lettura con lo
sguardo che sbirciava dall’alto, e al contrario. Non era sempre facile,
soprattutto quando il corpo del carattere era piccolo, ma il vero rapimento che
spesso leggevo nei loro occhi giustificava la fatica. Uno tra i momenti dedicati
era quello antecedente all’uscita delle 16: mi sembrava un bel modo di
accogliere i genitori, o i nonni, che trovavano i bambini impegnati in un
ascolto non sempre facile da ottenere. Ero certa che fosse questo il modo più
facile per trasmettere, ai bambini e ai loro adulti di riferimento, quell’amore
per la lettura che da sempre è dentro la mia vita, prima ancora che parte del
mio lavoro. Era come se dicessi ad ogni grande: “Si fa così. Puoi farlo anche
tu.”
Proprio alla scuola
dell’infanzia ho esercitato, per anni, il privilegio, per i bambini e per me,
di una lettura completamente gratuita, libera dalla logica adulta, che
generalmente la rinchiude nell’ambito angusto della comprensione, o, più ancora,
dei “temi”: la paura, il vasino, l’abbandono, la gelosia. A questo proposito,
trovo illuminante l’intervento di Nicoletta Gramantieri, responsabile della Biblioteca Salaborsa ragazzi di
Bologna, che da anni si occupa di laboratori di educazione alla lettura rivolti
alle scuole e tiene corsi di formazione per insegnanti e bibliotecari relativi
alla lettura e alla letteratura per bambini e ragazzi, in L’albo
illustrato e il suo lettore, dal saggio Ad
occhi aperti Leggere l’albo illustrato, Hamelin, 2012: “Abbiamo già sottolineato come l’albo illustrato sia una delle prime
fonti scritte a cui i piccoli possono rivolgersi per soddisfare il loro bisogno
di storie. Sembrerebbe quindi che compito degli adulti sia semplicemente
permettere ai piccoli di incontrare i libri, di incontrarne tanti per poter
individuare, scegliere, godere proprio di quelli in grado di rispondere a
bisogni e desideri individuali per quanto riguarda la fruizione di storie. Il
mercato editoriale ha una proposta molto ricca e articolata all’interno della
quale, con qualche strumento e un po’ di esperienza, è possibile muoversi e
valutare. Il contatto quotidiano con insegnanti e genitori, la frequentazione
della lista Nati per leggere e alcune collane pensate per i più piccoli ci raccontano
però che il rapporto fra bambini, libri e adulti non è così semplice. È
successo che gli adulti abbiano iniziato a pensare non che i bambini, come
tutti gli umani, abbiano bisogno di narrazioni, di storie, ma che abbiano
bisogno di storie per affrontare i compiti di sviluppo. Anche questo è vero,
molti sono i racconti di lettori attorno all’aiuto ricevuto dai libi in momenti
impegnativi della vita. Questa esigenza viene però spesso banalizzata nel
tentativo di creare un’esatta corrispondenza fra compito di sviluppo e storia
narrata. […] Quello che suggerisco agli adulti è di cercare i temi partendo dai
libri, non di cercare i libri partendo dai temi. Lo faccio mostrando come
all’interno dei libri costruiti con cura, con attenzione a tutti gli aspetti e
con una storia che funzioni narrativamente sia possibile rintracciare pressoché
qualsiasi tema.”
E così, alla scuola
dell’infanzia, leggevo. Leggevo e basta.
Sceglievo - sceglievamo,
perché spesso erano proprio le bambine e i bambini a farlo – qualsiasi albo o libro
desiderassimo dalla biblioteca appena fuori dall’aula, in uno spazio facilmente
accessibile agli alunni di tutte le classi, e leggevo. A volte, durante la
lettura, le bambine e i bambini mi interrompevano con domande, commenti,
osservazioni; a volte - ed è questo, soprattutto, che io chiedo ai mei alunni
nel passaggio alla scuola primaria - ascoltavano dall’inizio alla fine, e poi
tornavamo indietro, a rileggere, osservare, riflettere, commentare.
Ho imparato molto, in quegli
anni, sia riguardo le tecniche della lettura (la modulazione della voce, che
può divenire un sussurro e in attimo tramutarsi in urlo, l’interpretazione e la
caratterizzazione timbrica dei diversi ruoli, l’importanza delle pause e del
silenzio), sia, soprattutto, riguardo la conoscenza e la selezione dei libri da
proporre. Perché, se è vero che è necessario lasciare spazio alla scelta
bambina, senza giudizio, senza presunzione, senza censura adulta, è altrettanto
vero che proprio all’adulto tocca conoscere e proporre anche altro, uscendo dagli
stereotipi facili e scontati di quel che i bambini già apprezzano attraverso i
modelli televisivi o commerciali e mostrando loro, narrando con immagini e
parole, che esistono altri linguaggi, altri protagonisti, altre storie.
C’era un albo, in quegli
anni, che le bambine, i bambini ed io amavamo particolarmente: Io mi mangio la luna, di Michael
Grenjec, Arka. È la storia degli animali della savana, che nelle notti di luna
piena si chiedono che gusto abbia la luna, finché decidono di tentare di
assaggiarla.
Da
sempre, nelle calde notti africane, gli animali si chiedevano che sapore avesse
la luna. Era dolce? O salata? O amara?
Avevano
provato ad allungare il collo, a rizzarsi sulle zampe posteriori, a tendere
quelle anteriori. Ma nessuno di loro era mai riuscito a toccarla.
Finché,
una notte di luna piena, la tartaruga decise di salire su un’alta montagna.
“Da
lassù riuscirò certamente a toccare la luna e a scoprire che sapore ha. E se sa
di insalata, io me la mangio” pensò.
Un linguaggio evocativo, pur
nella sua semplicità. La savana è un luogo lontano, selvaggio, sconosciuto.
Eppure, la luna che vedono i suoi abitanti è la stessa che si può ammirare da
qualsiasi altro luogo al mondo. E che sapore avrà? Qui siamo nel territorio dei
bambini, che tutto percepiscono con i sensi, e che con i sensi imparano a
conoscere e a raccontarsi il mondo. Ed è proprio l’abbinamento tra la
semplicità degli aggettivi dolce, salata,
amara, e la percezione della luna, naturalmente limitata al campo visivo, a
risultare spiazzante, e vincente. Nessuno fino a quel momento si era mai
chiesto che gusto avesse la luna: solo gli animali, e i bambini, avrebbero
potuto porsi tale domanda.
La prima a tentare l’impresa
è la tartaruga: un animale né grande, né potente, neppure nell’immaginario
collettivo. Eppure, è proprio il suo guscio a sostenere prima l’elefante, poi
la giraffa, e la zebra; via via, ogni animale chiamato a soccorso dal
precedente, in una storia “incatenata” degna delle fiabe a catena della
migliore tradizione orale e scritta, si avvicina sempre più all’oggetto del
desiderio, che ogni volta sfugge un po’ più in alto nel cielo; finché è proprio
il più piccolo, il topolino, a beffare la luna e a staccarne un bel pezzo con
un morso.
E dunque, mi chiedo, ora
come allora, chi ha bisogno di libri a tema, quando in un solo albo possiamo
trovare la curiosità che allarga gli orizzonti, l’autostima che permette di
tentare qualsiasi impresa, la consapevolezza che, dove non riusciamo da soli,
qualcun altro potrà aiutarci, o farcela, la soddisfazione di riuscire in
un’impresa considerata impossibile, la rivalsa del più piccolo contro la
furbizia di chi si credeva irraggiungibile?
Così, quando sono stata
invitata a tenere il mio primo incontro laboratoriale per gli studenti del
corso di laurea in Scienze dell’educazione dell’Università Cattolica di Milano,
non ho avuto alcun dubbio, e ho scelto proprio una rappresentazione in grande
formato di quest’albo, dove i protagonisti potessero entrare di volta in volta
in un’unica scena e concorrere al degno finale.
Risalgono proprio agli anni
della scuola dell’infanzia - che han coinciso con l’infanzia dei miei figli –
la conoscenza e l’amore appassionato e mai sopito per alcuni immensi
protagonisti della letteratura: il mostro peloso e Lucilla, la talpa di “Chi me
l’ha fatta in testa?” e il piccolo bruco mai sazio, Harold e la sua matita
viola, Biagio il pulcino mascherato e i Tuim, Federico e Pezzettino.
Protagonisti che mi hanno accompagnato, in assoluta continuità verticale, dalla
scuola dell’infanzia a quella primaria, diventando compagni amati anche dai
bambini più grandi. Naturalmente, con il passaggio non ho smesso di cercare e
scegliere libri, e in particolare albi illustrati, classici e nuovi,
continuando a frequentare fisicamente librerie e biblioteche, e scegliendo con
cura i blog da seguire on line (su tutti, quello della casa editrice
Topipittori, Lettura candita di Carla Ghisalberti e Scaffale Basso di Maria
Polita). Fin dal primo giorno della prima, io sono diventata “la maestra dei
libri e delle storie”, quella che per presentare ogni lettera utilizzava i
personaggi della letteratura per l’infanzia e ne narrava le avventure. Ogni
bambina, ogni bambino, ascoltava e disegnava; poi, prima con il mio aiuto, in
seguito in graduale autonomia, scriveva quel che della storia lo aveva
particolarmente colpito, in una produzione scritta sempre libera e personale.
Mi pare questo il maggior merito di tale approccio didattico: la possibilità di
confrontarsi con diversi linguaggi, di apprenderne il lessico e le tecniche, di
farli propri e di trovare via via il proprio stile espressivo. Il rischio, in
un lavoro di questo tipo, è sicuramente quello di guardare ad ogni albo, ad
ogni libro, soprattutto per le sue possibili valenze didattiche, sovrapponendole
al valore primario e intrinseco di senso e bellezza per il quale è stato
originariamente scelto.
Così ora mi trovo sovente a
pensare che la lettura gratuita è la grande sfida che spesso si rischia di
perdere proprio nel passaggio alla scuola primaria, dove abitualmente la tecnica,
sia da parte del bambino che dell’adulto, è strumentale alla comprensione, alla
riflessione morfologica, alla produzione scritta, mentre più raramente lascia
spazio al piacere, al gusto, al divertimento, alla bellezza.
Una sfida, certo, perché io
per prima utilizzo i libri, ed in particolare gli albi, per la didattica; ma
nel farlo cerco di non dimenticare tutto il portato che questi libri hanno, il
loro valore intrinseco, la loro capacità di generare riflessioni da condividere
e, ancor prima, quel silenzio tanto spesso invocato proprio dagli insegnanti.
Raramente ho avvertito in classe questa magia, se non durante la lettura, da
parte mia, di un libro particolarmente intenso e significativo. Il silenzio che
genera pensiero, riflessione, le basi su cui condividere, discutere e
sviluppare quello spirito critico che mi sembra obiettivo fondamentale per la
crescita.
Qualche tempo fa Maria
Polita, studiosa di letteratura per l’infanzia, blogger di
Scaffale Basso e responsabile dei laboratori di Scrittura all’Università
Cattolica di Brescia e Piacenza, mi ha chiesto cosa ci guadagnino i
bambini a cui si legga costantemente. Ho risposto: “Un bambino a cui si leggano appassionatamente libri
non guadagnerà automaticamente l’amore per la lettura autonoma; questo è una
sorta di pensiero magico, di cui io per prima devo imparare a liberarmi. Ogni
bambino che abbia la fortuna di avere accanto un adulto che legge per lui
guadagnerà però sicuramente uno sguardo attento, una mente pronta, la capacità
di ascolto, l’attenzione ai particolari, un linguaggio ricco, e, su tutto, la
capacità di vedere le cose da molteplici punti di vista, e da molteplici punti
di vista riflettere su di esse.”
Ho insegnato per 17 anni
nella scuola dell’infanzia, e da 14 sono passata alla primaria. Sono
l’insegnante, e prima ancora, la persona, che sono, anche e soprattutto grazie
a quei primi 17 anni. Penso, e lo dico spesso, che per ogni insegnante di
scuola primaria sarebbe necessario un periodo di esperienza alla scuola
dell’infanzia. Se ne guadagnerebbero, quantomeno, una percezione più realistica
e uno sguardo più attento sulle bambine e sui bambini veri, reali, contro
l’idea stereotipata di bambina e bambino che molti di noi, insegnanti della
primaria, abbiamo in mente e ci aspettiamo di trovare sui banchi il primo
giorno di prima.
Esiste l’infanzia, certo; ma
prima ancora, e soprattutto, esistono i bambini e le bambine, nella loro
singolarità e unicità. E ognuno di essi potrà trovare forse, dentro un libro, “[…] le parole capaci di restituirgli il
senso della sua esperienza, o di uscirne, in un libro scritto da un uomo o da
una donna che parla di cose completamente differenti, magari lontanissime nel
tempo o dall’altro capo del mondo. Proprio laddove presuppone un viaggio nel
tempo e nello spazio, laddove produce una metafora (la quale, come è ormai
assodato, crea movimento in colui che la percepisce), laddove genera
un’appropriazione, un libro attiva davvero il lettore, che può rimanere
sconvolto e, tra le righe, ritrovare la creatività, lasciarsi andare alla
fantasticheria, pensare.” Michèle Petit, Elogio della lettura, Ponte alle Grazie, 2010