sabato 18 novembre 2017

giovedì 16 novembre 2017

Chi sono io? Shamsa e Amine


L’uso delle nuove tecnologie, ed in particolare del computer in classe, ha portato almeno un indubbio vantaggio: la possibilità di sostenere i ragazzi che ancora non padroneggiano perfettamente l’ortografia, il lessico, la sintassi della lingua italiana.

Solitamente producono il loro testo in completa autonomia in prima copia; poi mi affianco per riflettere con loro e riscrivere il testo nel modo più corretto e scorrevole possibile, per una lettura più agevole per loro stessi e per gli altri.

Mi pare che l’inclusione vera passi anche da qui.

Chi sono io?

Io sono Shamsa.

Io sono pakistana, perché sono nata in Pakistan e parlo in urdu.

Io sono una scrittrice, perché mi piace scrivere; la nostra maestra Antonella mi ha fatto imparare la scrittura e la lettura in italiano, e a me è piaciuta la scrittura.

Io sono un’alunna perché frequento la classe 5^ e sono una studentessa, perché vengo a scuola a studiare.

Io sono figlia di Saima e di Afzal; io sono nipote di Bishir e Mida, che vivono in Pakistan, a Mararpur. Io sono cugina di Faiza, che vive nella stessa città dei nonni e ha sei anni. Io sono una sorella maggiore, perché ho due fratelli, Raza e Bilal, e una sorella, Tanzila, tutti più piccoli di me.

Io sono amica di Sadiqa e Tayyba, due ragazze più grandi di me, che vivono in Pakistan e che conosco fin da quando sono piccola, perché abitano vicino a casa mia.

Io sono di carnagione più scura di alcuni dei miei compagni, perché la mia pelle è marrone.

Io sono di Mararpur, perché è la mia città preferita.

Io sono golosa di “gol gape”, piccole patatine a forma di cerchio, e di “lesy”, altre patatine, perché mi piacciono molto.

Io sono un’amante delle fattorie, perché in Pakistan ne ho una, dove ci sono un cane, due mucche e c’erano anche i vitelli.

Io sono una ragazza.

Io sono silenziosa, perché in classe non parlo così tanto; parlo di più con le maestre, meno con le compagne.

Io sono paurosa, perché ho paura del buio.

Io non sarò mai cattiva, perché non mi piace essere cattiva con nessuno.

Io sarò brava in italiano, e la mia maestra dice che sono già molto brava adesso, perché ho imparato tantissime cose da quando sono arrivata in Italia, perché mi piace fare italiano.






 
Chi sono io?
Io sono Amine.
Io sono bravo a giocare a calcio in difesa. Ho imparato a 6 anni, non mi sono più fermato e non mi fermerò nemmeno quando sarò grande. Io vorrei essere un bravo calciatore, almeno i miei genitori mi fanno i complimenti, perché sono bravo sia in porta sia in difesa e mi diverto. Non mi sono ancora iscritto alla scuola calcio, ma quando giochiamo insieme a scuola i miei compagni mi dicono che sono bravo. Io non sarò mai un ciclista, perché si deve pedalare un sacco e io non voglio fare così tanta fatica.
Io sono un amante del profumo della natura, perché è lei che ci fa vivere.
Io sono un alunno e sto imparando quello che prima non sapevo. Le mie insegnanti mi stanno aiutando a imparare. Quest’anno sono in 5^ e l’anno prossimo andrò in 1^ media, ma verrò ogni giorno a salutare i miei insegnanti.
Io vorrei essere un bravo maestro che non sgrida. La maestra Antonella ci ha letto un libro in cui c’era un insegnante che non sgridava mai e io voglio essere come lui.
Io sono marocchino, ma sono nato in Italia. Spesso, durante l’estate, vado al mio paese, che si chiama Beni Melal. Mia sorella è nata in Italia come me, invece mio fratello in Marocco, come mio papà e mia mamma.
Io sono un appassionato di cuccioli di cane perché sono bellissimi.
Io non sono appassionato della scuola.



martedì 14 novembre 2017

Un passo indietro


Servono, i passi indietro: per avere una prospettiva più ampia, per evitare di soffermarsi troppo su un unico dettaglio, per provare a cambiare direzione.

Spesso, un passo indietro è il movimento più semplice per adeguare il proprio punto di vista a quello altrui, o per ritrovare chi si è attardato. A volte, un passo indietro può aiutarci a scendere da quel piedistallo che potremmo esserci costruiti da soli.

Da ogni passo indietro, possono sicuramente nascere nuovi passi avanti.

Se c'è qualcosa che in questi 30 anni di scuola ho imparato,  è a non intestardirmi.
Capita, a volte, che un’attività, un progetto, una lettura cui tengo in modo particolare, si rivelino inadeguate ai ragazzi, o non diano i risultati sperati e attesi.
Me ne faccio una ragione, e vado oltre, nella consapevolezza che anche i fallimenti hanno sempre qualcosa da insegnare.




Quando ho nascosto la copertina del libro che mi apprestavo a leggere nelle due classi, non l’ho fatto tanto perché i ragazzi fossero invogliati a indovinarne il titolo, ma piuttosto per evitare che proprio dal titolo potessero trarre indicazioni che avrebbero svelato loro il mistero ben prima del finale. Mi aspettavo che la lettura li appassionasse e li coinvolgesse tanto quanto era successo a me. 
Non è andata così.
Certo, sembrava ascoltassero attentamente; qualcuno ipotizzava misteri ben celati, o trame avvincenti. Ma quando, dopo la lettura dei primi capitoli,  ho chiesto loro cosa ne pensassero, molti mi hanno risposto che il libro era noioso, o che non era il loro genere.
Così ho pensato di fermarmi, non senza prima aver chiesto a tutti di provare a indovinarne il titolo, ben sapendo che sarebbe stato molto difficile, dopo la lettura di così pochi capitoli.











Eppure molti di loro hanno scritto proprio il titolo della prima edizione del romanzo di Clive Barker, La casa delle vacanze, che in questa nuova pubblicazione è diventata

La casa degli anni scomparsi







Nessuno però ha indovinato il nuovo titolo, proprio quello che mi aveva spinto a ricoprire il volume.
A questo punto, senza svelare nulla del seguito per non rovinare la sorpresa a chi vorrà proseguirne la lettura, ho chiesto loro di provare a immaginare le ragioni di questo titolo. E anche in questo caso, le risposte mi hanno parlato dei ragazzi molto più di quanto l’insieme di poche parole potrebbe far immaginare:


Perché dal pezzettino di libro che abbiamo letto secondo me gli anni passavano e scomparivano senza che nessuno si ricordasse che erano già passati

Forse perché Harvey non tornava più a casa e stava sempre lì

Perché gli anni in quella casa passavano troppo velocemente

Perché magari tutti quei bambini che andavano nella casa delle vacanze non tornavano più a casa

Perché Harvey, visto che era stato molto tempo in quella casa, ogni volta che andava a dormire si dimenticava i suoi genitori e il suo passato

Secondo me è perché in ogni giornata passavano le stagioni, e quindi ogni giornata era come un anno, e le giornate passate magari a non fare niente erano come anni passati in casa a non fare niente

Perché ogni volta che in quel libro si arrivava a febbraio, si tornava indietro a gennaio e gli anni non passavano mai

Harvey, in questa casa delle vacanze… il tempo passava, lui stava lì anni e anni e quando si ricordò che doveva tornare a casa, i suoi genitori gli dissero che era stato fuori un’ora

Perché magari là dentro ci son persone, tipo alcuni maggiordomi, che son stati lì da bambini, poi non se ne sono resi conto ed è passato il tempo

Per me s’intitola così perché in questa casa ci sono tutte cose belle che fanno piacere ai bambini che ci vanno, e quindi fanno dimenticare le cose che sono successe prima, quando non erano in questa casa

Per me questo titolo è stranissimo perché racconta come Lulù che è stata lì tantissimi anni, racconta queste avventure, che però sembrano vere ma non lo sono 

Perché loro stanno là, si divertono e fanno tutto quello che vogliono, quindi può passare pure un anno o due, e non se ne rendono neanche conto, pensano che è passato pochissimo

Questo titolo mi fa pensare che se il titolo è La casa degli anni scomparsi, un capitolo “Prigionieri”, mi ha fatto pensare che quando entravi lì non potevi più uscire e così passavano tutti questi anni restando lì

Per me si intitola così perché lì le giornate passavano in fretta, e pure le stagioni, e quindi, visto che andava tutto veloce, non tenevi più conto di quanti anni restavi lì, ad esempio come Lulù

Però Lulù s’è resa conto di quanti anni sono passati…

Per me gli anni scomparsi indicano gli anni di Harvey… gli anni di Harvey nel posto della casa segreta

Per me La casa degli anni scomparsi è come se ogni giorno invecchi di un anno, perché ogni sera c’era Halloween e Natale, perciò ogni giorno che passa per i tuoi genitori è un anno passato senza di te

sabato 11 novembre 2017

Siamo tutti Malfatti (ma dotati di poteri)


Sono convinta che i libri che scegliamo di leggere in classe dicano molto rispetto a che bambini vogliamo e che insegnanti siamo. Dicono del nostro stile educativo, degli obiettivi che perseguiamo, della nostra idea di bambino; un’idea astratta che però accetta -deve farlo- di confrontarsi con ogni bambino reale che ci troviamo di fronte.




Quando, ormai più di tre anni fa, in prima lessi I cinque Malfatti, di Beatrice Alemagna, Topipittori,  ai miei allora bambini, queste furono esattamente, parola per parola, le loro reazioni:

«Il perfetto è stupido, che è una parolaccia, ma qui si può dire, perché significa che non usa il cervello.»

«Il perfetto è antipatico, perché vuole comandare lui che non c’entra niente.»

 «Il mio preferito è il molle, perché mio fratello mi chiama pappamolle.»

«Il mio invece è lo sbagliato, perché mia sorella mi dice che sono sbagliato.»

 «Il perfetto fa ridere perché ha i mutandoni.».



Ma perché ai bambini i Malfatti piacciono tanto?



Il bucato piace «perché non si arrabbia mai»; «perché la rabbia gli esce dai buchi».

Il molle «perché dorme»; «perché anche a me piace dormire»; «perché quando paro la palla ho la pancia molle».

Il capovolto «perché a volte faccio la verticale»; «perché mi piace andare al circo».

Il piegato «perché anch'io so piegarmi».

Ma il preferito dei bambini è senza alcun dubbio lo sbagliato: «perché sbaglia tutto»; «perché fa ridere»; «perché anch’io qualche volta sbaglio»; «perché è ciccione»; «perché ha la bicicletta troppo piccola/troppo lunga (in ogni caso fuori misura)».



Ecco, forse è proprio dentro questa sensazione d’essere sbagliati, fuori misura, che ognuno di noi può ritrovare, dentro di sé, il desiderio prepotente di essere incluso; ed è proprio per questo che nel mio lavoro amo scegliere libri da cui emergano protagonisti assolutamente diversi tra loro, ma uniti dalla ricerca della consapevolezza di sé, degli altri, delle proprie capacità e dei propri limiti. Protagonisti che sappiano pensare con la propria testa, che facciano sorridere, sbarrare gli occhi, sognare, riflettere. Che intraprendano nuove strade. Che facciano nuovi pensieri. Che sappiano ridere, soprattutto di sé.

Vogliamo -o, almeno, io voglio, e lo dichiaro subito, ai bambini stessi, attraverso i libri che leggo loro-


a)      bambini che pensano (e non solo -non sempre- quel che vorrebbero gli adulti). Io credo che occorra “correre il rischio” che i bambini sviluppino un pensiero autonomo, anche diverso od opposto al nostro,  base necessaria allo sviluppo del pensiero critico, obiettivo/competenza fondamentale per la scuola, ma soprattutto per la vita 

b)     bambini che sappiano ridere di sé e dei propri limiti, prima di/invece che di quelli degli altri (ogni maestra ha ben in mente un bucato, un molle, uno sbagliato…e magari anche un perfetto stupido) 

c)      bambini capaci di andare oltre gli stereotipi (e, prima di pensare a progetti ambiziosi e spesso assolutamente solitari, meglio leggere loro storie con i personaggi giusti: Olivia, Pippi, Lotta, Ciorven, Amelia, Temple





Quando a fine giugno Francesca Romana Grasso mi ha chiamato per propormi questa bella opportunità, ho accettato con entusiasmo, che è una parola che da sempre mi caratterizza. Tra le molte cose che ci siamo dette in quella telefonata, una domanda di Francesca mi ha colpito particolarmente: quanto la parola inclusione, su cui verte questo tavolo, è ancora significativa? E quanto, invece, può essere ormai a rischio di uno svuotamento di significato, forse per la sovraesposizione, l’abuso di cui è stata oggetto in questi anni?

E ancora: Cosa significa davvero questa parola?

inclùdere v. tr. [dal lat. includĕre, comp. di in-1 e claudĕre «chiudere»] (coniug. come accludere). – 1. Chiudere dentro, inserire in una missiva, in un plico e sim. (più com. accludere, che ha in sé l’idea dell’allegare): ti includo nella lettera la ricevuta. Con senso più generico, i. una clausola in un contratto, e sim. Nella tecnica istologica, procedere all’operazione dell’inclusione. 2. Comprendere in un numero, in una serie, in un elenco: i. nella commissione, nella giuria, nella lista dei candidati o dei vincitori; i. tra i soci, tra i premiati. 3. Contenere in sé: le sue parole includono un tacito biasimo; il verbo «camminare» include in sé l’idea del movimento. Part. pass. incluṡo, anche come agg. e s. m. (v. la voce).

(dal vocabolario Treccani online)


Includere significa quindi chiudere dentro; e se anche è sicuramente nobile l’intento di inserire in modo stabile, efficace e sereno tutti i membri di una comunità (in questo caso quella scolastica), è il verbo chiudere che fa risuonare in me qualche perplessità.

Perché chiudere -seppur dentro e non fuori- se invece vogliamo accogliere, in un processo che Francesca ha ben definito osmotico, e soprattutto valorizzare le differenze, qualsiasi esse siano?

È qualcosa su cui ho riflettuto a lungo, ritrovando nella mia mente, seppur con le dovute differenze, un parallelismo con la parola tolleranza.  Anch’essa, nel corso del tempo, ha modificato il proprio significato, fino ad arrivare ad avere una connotazione negativa, proprio a partire dal suo senso più profondo. Tollerare contiene in sé un’accezione negativa, di chi parte da una posizione di dominanza, per sopportare chi reputa di livello inferiore al proprio.

Allo stesso modo, includere - lo dice il verbo stesso - racchiude, ingloba, recinta, ciò che forse recintabile non è.

Ho quindi pensato a quali siano le vere necessità dei bambini, dei ragazzi, nessuno escluso, e di quali di queste necessità è obbligo che un insegnante si faccia carico; le ho quindi trasformate in poteri, sulla suggestione di una delle più belle letture fatte quest’anno:





Il potere del gioco

C’è un brano che, recentemente, ho voluto inserire tra le scelte per un libro di testo di futura prima: si tratta di una pagina tratta da Mallko e papà, di Gusti, edito da Rizzoli





MALLKO E PAPÀ – CONGELATO

Mallko ha molti poteri.

Uno di questi è il raggio “congelante”.

Ti lancia un raggio che di solito è accompagnato

da un BUUU! o da un grido.

E tu sei congelato.

Una volta congelato devi aspettare che ti scongeli.

Il metodo più efficace è il bacio.

A volte prova con un altro BUUU!

ma se non funziona si avvicina

e ti dà un altro bacio che ti scongela.

Poi ricomincia daccapo (attenzione, il gioco può durare diverse ore).

A volte ti trasmette il potere di congelamento

e così sei tu che lo puoi congelare

e lui rimane con la testa bloccata di lato.

Gusti, Mallko e papà, Rizzoli



Avrei potuto scegliere molte altre pagine, da questo o da altri libri scritti sulla disabilità; ho scelto quella che avete appena ascoltato perché mi è parso di poter dire, ai bambini che la leggeranno, e che spero abbiano la fortuna di avere un insegnante che, come per ogni brano, mostri loro l’albo da cui il testo è stato tratto: ecco, questo è Mallko. È un bambino “diverso” - ma non siamo tutti, uno dall’altro, diversi? È un bambino che per certi versi farà sempre più fatica della maggior parte di voi. Eppure è anche un bambino che, come tutti i bambini, nel gioco ritrova il proprio io. Cosa c’è di diverso, in questo, da ogni altro bambino, da ognuno di voi?



Il potere della parola

Un’altra necessità per un insegnante che voglia realizzare una scuola realmente fatta da e insieme ai bambini, ai ragazzi, è dar loro voce:

"[...] ridare la parola agli alunni perché possano essere autori della loro crescita e della loro formazione."

L'arte dello scrivere Incontro fra Mario Lodi e don Lorenzo Milani, Casa delle Arti e del Gioco - Mario Lodi


Questo processo è ben descritto in alcuni passaggi del libro di Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande Cronaca di un’avventura pedagogica, Sellerio

Ancora una volta stiamo procedendo a tentoni. Provoco discussioni e dalle loro parole nascono piste che poi cerco in qualche modo di alimentare, quando ci riesco.”





Procedere a tentoni. Provocare discussioni. Alimentare in qualche modo le piste nate dalle parole dei bambini. Quando ci riesco.

Sono forse queste le parole che meglio riassumono il senso del mio “agire” pedagogico e didattico: quel che scrive Lorenzoni, maestro elementare che ha fondato ad Amelia, nel 1980, la casa-laboratorio di Cenci, un centro di sperimentazione educativa che ricerca intorno a temi ecologici, scientifici, interculturali e di inclusione, provoca un'eco profondissima dentro di me. 

E mi dico che se ancora oggi un maestro come lui procede a tentoni, forse posso continuare a farlo anch'io.

[...] rimango spesso stupito quando assisto alla meraviglia del nascere di un pensiero e perché penso che il bello, nel dialogare, stia proprio nella tensione di ciascuno a cercare di chiarirsi un'idea tramite parole che nascono in un gioco di reciproco ascolto e di scambio che, quando s'innesca, sembra non avere fine.

So però che in questo mondo in cui ci è capitato di vivere, è assolutamente necessario fare esperienze, osservare tanto e frequentare il bello ovunque si trovi, per nutrire l'immaginazione nostra e dei bambini. E che questo dovrebbe essere il maggiore imperativo per un'istituzione che ha l'ambizione di formare le nuove generazioni.” 

LORENZONI F., I bambini pensano grande Cronaca di una avventura pedagogica, Sellerio



Il potere dell’ascolto

Quanto tempo dedichiamo all’ascolto dei bambini, di tutti i bambini, anche di quelli che sembrano non parlare mai (e invece lo fanno con il corpo, con i silenzi, con la scrittura, con il disegno, con il gioco, con gli errori)? E quante delle parole che i bambini dicono vengono davvero utilizzate per ripartire con i nostri progetti, le nostre attività, secondo quel che mirabilmente racconta Franco Lorenzoni, maestro e padre di un ragazzo disabile?


[…] Oggi, nel curioso andirivieni delle mode pedagogiche, fa sorridere il fatto che da qualche anno tutti parlino di emozioni, da quando alcune scoperte nel campo delle neuroscienze insieme a pubblicazioni uscite da numerose università statunitensi, sembrano aver dato finalmente dignità teorica al peso delle emozioni nell’attività educativa, nota peraltro ad Atene, qualche millennio fa. Tante maestre, educatrici ed educatori hanno l’abitudine di trascrivere i pensieri infantili che emergono dalle bambine e dai bambini quando disegnano, drammatizzano o giocano liberamente, quando discutono tra loro in modo strutturato o spontaneo. Ancora troppo raramente, però, questo straordinario repertorio di domande, affermazioni, considerazioni e ipotesi fantastiche è assunto da noi insegnanti come riferimento fondamentale ed orizzonte dal quale partire e nel quale orientare la nostra pratica educativa.

 Assumere pienamente la pedagogia dell’ascolto come fondamento dell’innovazione didattica comporta un nostro rimetterci in gioco in profondità perché, come ci ricorda Alessandra Ginzburg, alcune domande infantili sono “spesso inquietanti e insidiose rispetto alle salde certezze” che riteniamo di avere. Ma, forse, è proprio accogliendo queste inquietudini che possiamo coltivare quello stupore attento, così necessario per mantenere viva la relazione educativa.


Franco Lorenzoni sulla rivista Bambini





Il potere della poesia


Io credo fortemente che la grande valenza e la potenzialità del fare poesia, fuori e dentro la scuola - ma soprattutto dentro - sia la sensazione di assoluta libertà che i bambini sentono sulla propria pelle, nella testa e nel cuore. Penso che il bello della poesia, in particolare per i bambini più in difficoltà con la parola, soprattutto scritta, sia proprio la possibilità di esprimersi senza il timore di essere giudicati. Come afferma la stessa Candiani in una recente intervista: «Non è facile partecipare a un seminario di poesia, bisogna accettare di non sapere niente, per questo i più bravi a scuola hanno più difficoltà perché hanno più paura a lasciar cadere i risultati, le sicurezze, i luoghi protetti. Gli asini invece corrono liberi. Spesso dentro un asino c’è un poeta addormentato e sfiduciato e io cerco di scovarlo con delicatezza. Mi sembra che tutto stia nel vedere i bambini e le bambine più invisibili di tutti. Io sono stata una di loro, così mi è facile notarli per primi.»

Trovo conferma delle parole della Candiani nel volume Io potrei essere tutto, da me curato e pubblicato nel giugno 2016, che raccoglie 108 poesie, scritte dai miei 54 alunni e scelte in assoluta autonomia da ognuno di loro.

La maggior parte sono frutto di una rielaborazione di poesie di autori conosciuti (su tutti, Silvia Vecchini e Giusi Quarenghi); Parole e Silenzio sono invece nate nel corso di una lunga riflessione sulla bellezza delle parole e del silenzio che ci ha accompagnato alla nascita del nostro progetto di educazione alla bellezza; Sono è la riscrittura poetica, attraverso l’utilizzo della metafora, del gioco del Se fossi



Ogni volta che rileggo il libro, mi tornano alla mente i visi dei bambini, le loro espressioni divertite, o concentrate, la fatica e l’impegno che molti hanno messo nello scrivere, nel trovare e dare forma ai propri vissuti, a sensazioni, emozioni, sentimenti. Spesso ho riconosciuto tra i versi il carattere dei piccoli poeti. Altre volte, più raramente ma in modo altrettanto significativo, mi sono stupita nell’intravedere, come dice Silvia Vecchini nella prefazione al libro “come attraverso uno spioncino, le stanze dove le intelligenze di questi bambini sono così accolte che si esprimono senza timori, si fanno grandi, coraggiose e forti tanto da dire Io potrei essere tutto.”



C’è un ricordo che conservo nitidamente: anni fa, all’inizio del mio lavoro nella scuola primaria (prima avevo insegnato per 17 anni nella scuola dell’infanzia), durante l’assemblea di fine anno con i genitori, la collega di italiano della classe parallela alla mia disse: «Anche a me piacerebbe molto lavorare con i bambini sulla poesia, ma non ho tempo.».

Io ero agli inizi, lei prossima alla pensione. Eppure, nonostante la sua esperienza, che la rendeva un’insegnante estremamente capace e competente, non aveva tempo per ‘lavorare’ sulla poesia.

Per me, in questi anni, è stato invece sempre vero il contrario: naturalmente, l’elenco di quel che non ho ‘fatto’ in classe con i bambini è molto lungo. Però per la poesia c’è sempre tempo «[…] nell'idea che la poesia sia il mezzo più potente per esplorare e fare proprie le risorse del linguaggio e che l'acquisizione di queste risorse sia fondamentale per la costruzione di una personalità creativa e l'espressione di un pensiero libero.» (Chiara Carminati, Perlaparola bambini e ragazzi nelle stanze della poesia, Equilibri)



E, parlando di poesia, non posso fare a meno di leggere la

FILASTROCCA DEI BAMBINI IN SALITA

scritta da Bruno Tognolini per il libro-bibliografia sulla famiglia "Dipende da come mi abbracci", Libreria Tuttestorie e Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Cagliari, novembre 2007 e contenuta in Rime raminghe, Salani

Ci son bambini burattini stanchi
Che vivono una faticosa vita
Per strada, nelle camere, fra i banchi
Sono sempre in salita
Ogni frase da dire è una montagna
Da scalare fra picchi e scogli sparsi
Ogni passo con pena si guadagna
Per loro camminare è arrampicarsi
Fatica per vedere, fatica per sentire
Pesa un quintale un foglio preso in mano
Durissimo studiare, difficile capire
Il mondo è ripido, scosceso e strano
Ma la salita fa gambe muscolose
Loro non se ne sono mai accorti
Ma i burattini dalle vite faticose
Nascosti dentro hanno bambini forti
E tutti noi che siamo un po' il contrario
E il burattino è dentro, ben nascosto
Con loro abbiamo un modo straordinario
Per fargli prender aria, anche per poco
Facciamo qualche gioco
Che ci scambi di posto






Il potere delle persone


Antonino trascina sempre dietro di sé il suo pentolino.

Un giorno gli è caduto sulla testa… non si sa bene il perché.

Per via di questo pentolino, Antonino non è più come gli altri.

[...]

Fortunatamente esistono persone straordinarie.

Basta incontrarne una…

…per trovare la voglia di tirar fuori la testa dal pentolino.

Lei gli insegna a convivere con il suo pentolino.

Gli mostra i suoi punti forti.

Lo aiuta ad esprimere le sue paure.

E trova che ha molto talento.

Antonino ritorna ad essere felice.

Lei gli confeziona una saccoccia per il suo pentolino.

Poi si separano.

Il pentolino è sempre lì, ma è molto più discreto

… e soprattutto non si incastra più dappertutto!


Isabelle Carrier, Il pentolino di Antonino, Kite




“La Hampshire Country School si trova in campagna, immersa nel verde di prati e boschi. Comprende una fattoria vera, con mucche, maiali e cavalli di cui occuparsi. Le lezioni sono molto pratiche e c’è un sacco di tempo per le attività all’aperto. È qui che Temple incontra Mr. Carlock. È un insegnante di scienze che capisce molto presto quanto quella ragazzina spigolosa sia portata per la sua materia, quanto sappia vedere al di là di quello che vediamo tutti, quanto sia curiosa e intrepida. – Tutti hanno bisogno di un mentore – dice Temple quando parla del suo passato e di Mr. Carlock: ma vale anche per il presente e il futuro di chi la sta ascoltando.

Mentore: parola antica, che significa guida e consigliere, prima di tutto è il nome di un personaggio dell’Odissea di Omero, l’uomo di fiducia cui Ulisse affida suo figlio Telemaco ancora bambino prima di partire per la guerra di Troia, da cui tornerà quando Telemaco di anni ne ha venti. Tutti abbiamo bisogno di un mentore, di qualcuno che riconosca chi siamo e ci aiuti a capirlo. È proprio questo che fa Mr. Carlock per Temple.

Di solito un mentore ci suggerisce quali sono le materie o le attività in cui siamo più bravi, ci sostiene, ci incoraggia. Mr Carlock è una delle prime persone ad accorgersi che Temple possiede un di più dentro la testa, come se i cavi, i fili, i collegamenti del suo cervello fossero più complessi e numerosi di quelli di una persona qualunque, di una persona normale. Temple è diversa. Diverso non vuol dire inferiore. Vuol dire diverso e basta.


Beatrice Masini, Siate gentili con le mucche La storia di Temple Gardin, Editoriale Scienza






Quanti di noi hanno nel cuore un adulto, spesso un insegnante, a volte un allenatore, un catechista, un educatore, che è riuscito a valorizzarne i talenti, invece che a giudicarne le difficoltà? E per quanti di noi è stato l’incontro con questa persona a fare davvero la differenza?

E se questo è vero per chi vive la scuola, e più in generale la vita, in discesa, o almeno non troppo in salita, quanto più si rivelerà fondamentale, essenziale, direi, per chi ogni giorno deve sopportare un carico maggiore di fatica, da qualunque difficoltà essa dipenda?





Il potere della vicinanza


Mi sono avvicinato, ma non troppo.

Il cuore mi batteva forte.

Poteva spararmi bava da un momento all’altro.


Elisa Mazzoli – Sonia Maria Luce Possentini, Noi, Bacchilega Junior






Molto spesso, ciò che ci spaventa ha un potere maggiore proprio nella misura in cui ci è sconosciuto. Ben lo comprendiamo, proprio attraverso la lettura di questo bell’albo. Questa sorta di incantesimo si spezza nel momento in cui ci avviciniamo a chi è diverso: certo, all’inizio continuiamo a mantenere una distanza, per così dire, di sicurezza. Poi, una volta compreso di non correre nessun pericolo, se non quello del cambiamento, allora l’incantesimo si rovescia, e finiamo per rimanere avvinti da chi prima temevamo.





Il potere della lotta agli stereotipi


I maschi sono forti, le femmine sono deboli

I maschi sono stupidi, le femmine sono intelligenti

I maschi sono rozzi, le femmine sono sensibili

I maschi sono veloci, le femmine sono lente

I maschi sono disordinati, le femmine sono ordinate

I maschi sono sporchi, le femmine sono pulite

I maschi sono superficiali, le femmine sono profonde

[…]



Dall’introduzione di Silvana Sola a Leggere senza stereotipi. Percorsi educativi 0-6 anni per figurarsi il futuro, di Scosse, ed. settenove:

“Il dizionario alla voce “stereotipo” recita così: modella convenzionale di atteggiamento o opinione precostituita, generalizzata o semplicistica, che non si fonda sulla valutazione dei singoli casi, ma si ripete in forma meccanica.

E lo stereotipo accompagna affermazioni, gesti, determina comportamenti, annebbia gli sguardi e fornisce una visione del mondo, delle persone e delle cose, falsata. Falsata, limitata, chiusa tra parametri artificiosi che alterano la percezione del reale e bloccano l’immaginazione.

Il libro è uno straordinario mezzo di relazione capace di mettere in pagina tanti percorsi diversi, perché tante sono le possibilità offerte ai bambini e alle bambine, e agli adulti che li accompagnano, nel difficile percorso della crescita.”

Ed ecco che l’educazione senza stereotipi, che passa anche attraverso i libri, tanti e diversi, diventa strumento capace di garantire vera e concreta inclusione per tutti.





Il potere delle buone pratiche


Ho lasciato per ultimo questo potere perché è il più semplice, alla portata di tutti, e, io credo, tra i più efficaci.

Nel corso degli anni, ho sviluppato una certa insofferenza verso progetti altisonanti e dalle altissime finalità, a favore di una quotidianità meditata e attenta.

Proprio per questo, credo ci siano pratiche quotidiane che lavorano concretamente e dalla base per costruire una vera inclusione:

l’attenzione ai ritmi di ogni bambino, con un particolare rispetto verso chi ha tempi lunghi;

il coinvolgimento di tutti nelle discussioni (utilizzo spesso la tecnica di far loro scrivere ciò che pensano, o semplicemente la risposta alla domanda fatta dall’insegnante, su un foglietto, in modo che neppure i più insicuri possano rifugiarsi nel “già detto” dei compagni ma debbano trovare le parole);

la richiesta ai compagni di non alzare la mano quando un bambino/ragazzo sta, magari faticosamente, cercando dentro di sé una spiegazione, una risposta (la selva di mani alzate mentre tu stai ancora organizzando pensieri e idee dentro di te credo sia quanto di più invasivo possa capitare ad un bambino, per non dire di quanto possa minare la fiducia in se stesso);

un linguaggio, da parte dell’insegnante, mai superficiale, ma sempre attento e rispettoso delle identità di ciascuno, la valorizzazione di tutte le culture, attraverso la scoperta di usi e tradizioni, ma anche dei diversi alfabeti, delle diverse lingue, dei modi di dire;