venerdì 9 novembre 2018

Ciò che è mio, quel che è nostro

Seppur siano passati cinque anni, siano cambiati i bambini e sia cambiata io, ci sono attività che non posso evitare di riproporre, perché mi sembra che siano tanto significative da dover essere realizzate e documentate sul quaderno, perché sia i bambini che i genitori ne possano mantenere più facilmente vivo il ricordo.


Nei giorni scorsi abbiamo letto insieme Il nuovo nido dei piccoli Marsù, di Benjamin Chaud, Bohem Press (una casa editrice che amo molto anche per averci regalato, ormai molti anni fa, le avventure di Lupo Sabbioso).

È un libro davvero originale e divertente, che, tra le altre cose, permette di verificare facilmente le grandi capacità attentive di alcuni bambini e bambine, capaci, dopo una sola lettura, di ricordare senza errori la giusta sequenza degli animali protagonisti.
Certo, la narrazione ad alta voce permette anche questo: e spero, con quest’affermazione, di non aver fatto inorridire i sostenitori della gratuità della lettura.
Sono un’insegnante, e come tutti i miei colleghi ho un incarico che prevede obiettivi pedagogici e didattici. Mi sembra sempre un nonsense che si contesti l’uso strumentale della lettura a scuola: io certo non leggo ad alta voce per valutare e verificare, ma prima, durante e dopo una lettura ad alta voce, posso fare questo e molto altro.
Questo utilizzo della lettura in classe a scopo didattico (e pedagogico, sempre), toglie forse qualcosa alle mie bambine e ai miei bambini? Impedisce loro di goderne appieno, di divertirsi, di riflettere, di condividere pensieri e opinioni?
Io credo di no. Nulla toglie a loro, e, anzi, molto aggiunge, se l’insegnante è sempre capace di mantenere la giusta misura negli interventi, nelle domande, nelle sospensioni della voce propria per dare la possibilità di inserirsi alla voce bambina.
E quindi abbiamo letto, e ripetuto, e il giorno dopo raccontato a chi non c’era. Intanto, abbiamo riassunto. E poi abbiamo riflettuto su quel continuo ripetersi di  “È mio!”.
Quante volte lo ripetono, i bambini e le bambine? E quante volte lo pensiamo anche noi adulti?
Ci sono oggetti che davvero appartengono solo a noi: per i bambini è facile farne un elenco (e poi trovarsi a riflettere sull’affermazione “La mamma è mia” e sulla necessità, per molti, di condividerne l’amore con i fratelli e le sorelle). Eppure, è stato altrettanto facile, e immediato, il passaggio da ciò che appartiene al singolo a ciò che è condiviso: la nostra scuola, il nostro giardino, i nostri maestri, il nostro mondo.




È questa la direzione in cui ci piace andare.


martedì 6 novembre 2018

I cinque malfatti, ovvero "La prima ti dona"

C’è una frase che, da sabato, continua a ronzarmi nella mente.

“La prima ti dona”, ha esclamato un’insegnante, rivolta alla collega che ce lo ha raccontato.

Sarà vero che la prima ci dona? È così per tutti? E perché?

So bene che non esistono risposte universalmente valide; però, da sabato, sto provando a mettere ordine tra le mie.

Forse la prima ci dona perché ci permette di tornare a una dimensione in cui la relazione ha un ruolo imprescindibile nel processo di crescita e di apprendimento (io credo fortemente sia così anche ai livelli più alti dell’istruzione, ma sono altrettanto convinta che sia tanto più necessario quanto più i bambini e le bambine che ci vengono affidati sono piccoli; per noi, loro insegnanti, l’attenzione e la disposizione a creare una relazione positiva, equilibrata ed empatica diventa doverosa, oserei dire obbligatoria).

Forse la prima ci dona perché la richiesta della prestazione non si è ancora nettamente configurata, la necessità di verificare e valutare appare meno pressante e le capacità e le competenze di ognuno hanno ancora una dimensione molto liquida, che le rende non necessariamente imputabili a disturbi e difficoltà specifiche, ma spesso ascrivibili ai diversi ritmi di crescita e sviluppo.

Forse la prima ci dona perché la dimensione del gioco è ancora fortemente presente, l’accoglienza quotidiana un rito condiviso, la ricreazione un tempo che inizia prima e dura ben oltre il suono della campanella.

Forse la prima ci dona perché godiamo di un privilegio raro: vivere dall’interno, così da vicino da esserne parte, e parte attiva, il processo – che, dopo tutti questi anni, a volte mi appare ancora quasi magico – di apprendimento della lettura e della scrittura, in tutte le sue fasi e le sue concettualizzazioni.

Forse la prima ci dona perché possiamo tuffarci nelle profondità del pensiero bambino, che si esprime in tanti e diversi modi: attraverso la condivisione orale delle riflessioni di ognuno/a, la prima produzione scritta, la rappresentazione grafica.



 

Così, I cinque malfatti, di Beatrice Alemagna, Topipittori, ancora una volta ci fanno sorridere, ridere e pensare: perché lo sbagliato è diventato una patata nera?



Perché "il capovolto" è stato cancellato ed è diventato “la capovolta”?



Perché i malfatti sono diventati “manufatti”?


Poco importa: ciò che conta è che sono tutti divertenti e tutti diversi. Proprio come noi.


venerdì 2 novembre 2018

Il mostro peloso, ovvero Ancora sul potere delle parole

Nel bel mezzo di una foresta fitta fitta, in una caverna umida e buia, viveva un mostro peloso.

Era assolutamente ripugnante: la sua testa era  enorme, e da essa uscivano direttamente due piedini piccolissimi. Per questo motivo non riusciva  quasi a camminare e stava sempre nella sua caverna. Aveva una bocca molto grande, due occhietti azzurrognoli e due braccia lunghissime e sottili che uscivano dalle orecchie, con le quali catturava facilmente i topi. Aveva peli dappertutto: sul naso, sui piedi, sulla schiena, sui denti, sugli occhi e anche in altri posti.”

Ci sono storie, e libri, che ci accompagnano per lunga parte della nostra vita: le loro parole ,e le loro immagini,  nel caso degli albi, hanno il potere di suscitare un numero consistente di ricordi.





Il mostro peloso, di Bichonnier – Pef, Emme edizioni, è per me, per i miei figli, per i miei alunni, uno tra questi: da più di un quarto di secolo è presente negli scaffali della mia libreria e nelle mie letture ad alta voce.
È sufficiente leggerne l’incipit perché tutte le esperienze di lettura ad alta voce compiute negli anni tornino vividamente nella memoria: è il libro che mio figlio maggiore a poco più di quattro anni aveva imparato a memoria, e raccontava agli increduli ascoltatori mentre ne sfogliavo le pagine. È il racconto più volte narrato e messo in scena alla scuola dell’infanzia, e letto in ogni prima da che insegno alla scuola primaria. È il libro che, nel ciclo scorso, ha segnato il primo lavoro poetico di cui il quaderno dei miei alunni recasse traccia.


Mi fa sempre sorridere pensare che, nonostante la frequentazione assidua, fin dall’inizio della prima, con i più grandi poeti italiani per l’infanzia - Munari, Scialoja, Piumini, Tognolini - il primo lavoro poetico scritto di cui il quaderno dei miei bambini rechi traccia sia seguìto alla lettura de Il mostro peloso, di Bichionnier – Pef, (E.Elle 1985), un libro scanzonato e divertente in cui la piccola Lucilla, impertinente protagonista, si fa beffe di un orribile mostro proprio attraverso un serratissimo dialogo tutto giocato sulle rime.

“-Haha! gridò il mostro, ora ti faccio la festa!

-Peli sulla testa, disse Lucilla.

[…]

-Ah, mi prendi in giro, piccola insolente?

-Peli sul dente.

[…]

-Ora basta, facciamola finita!

-Peli sulle dita.

-Smettila, cosa credi?

-Peli sui piedi.

-Io li mangio, i marmocchi!

-Peli sugli occhi.

-Preferisci che ti sbrani?

-Peli sulle mani.

-Se credi di farmi pena…

-Peli sulla schiena.

-Ma guarda che ragazzaccia!

-Peli sulle braccia.

-Bada, non avrò pietà!

-Peli a volontà!”



BICHONNIER H. – PEF, Il mostro peloso, EL 1985


(da A scuola con gli albi Insegnare con la bellezza delle parole e delle immagini, Topipittori 2018)


Anche per i miei nuovi, piccoli alunni, Il mostro peloso ha mantenuto intatto il suo fascino. Pochissimi lo conoscevano; tutti, ancora una volta sono stati avvinti dalla magia del racconto.

Un racconto dissacrante, contro ogni stereotipo, a partire dal re pusillanime che, per aver salva la vita, promette al mostro un bambino morbido e cicciottello. La sua bassezza è ancora più evidente quando, incontrata la figlia, la piccola Lucilla, deroga al suo ruolo di padre, adulto, responsabile e difensore dei più piccoli e la depone ai piedi del mostro peloso, per poi filarsela a gambe levate.

Ed eccola, Lucilla, in tutto il suo splendore: capace, a suon di rime, di abbattere le difese del mostro e provocarne l’esplosione, in un tripudio di farfalle. Chi altri, e in quale altro modo, avrebbe potuto liberare il giovane principino da un incantamento – peli sul mento – di un malvagio folletto – peli sul petto?

A questo punto, resi ancor fiduciosi nel potere delle parole, anche noi giochiamo con le vocali e la prima consonante, proprio la M di mostro, cercando oralmente, e poi disegnando,  parole che inizino con A, E, I, O, U e con MA, ME, MI, MO, MU.





lunedì 29 ottobre 2018

Le U, i lupi, gli orchi e le streghe


Passare dall’ultima vocale, la U, a ululare, e a raccontar di lupi, è stato facilissimo; complice un albo di grande formato dal titolo Cattivi come noi, di Clotilde Perrin, Franco Cosimo Panini editore, acquistato tempo fa, quando le mie ragazze e i miei ragazzi erano ormai troppo grandi per apprezzarlo (o forse no?).




 


In ogni caso, il libro mi aspettava quieto quieto nel suo scaffale, pronto, con le sue sole tre triple pagine (Ha solo tre pagine! ha esclamato infatti una voce) a catturare bambine e bambini, prima con le ricche sagome apribili di lupo, orco e strega, poi attraverso la lettura dei loro punti di forza e di debolezza, dei cibi preferiti, dei nemici giurati, delle bibliografie in cui è possibile trovarli, infine con la lettura di tre fiabe, ascoltate in un silenzio ricco e denso, con occhi sgranati e fiati sospesi.
E che bello per me leggere ancora una volta ad alta voce Il lupo e i sette capretti, Jack e il fagiolo magico e Aliochka e la Baba Jaga, fiabe che molti non avevano mai sentito, e che hanno ascoltato così attentamente da riprodurne fedelmente i particolari:


 
 (Qui c’è il lavandino distrutto, e lì la coperta a pezzi, mi ha spiegato un bambino, raccontandomi il suo disegno. Ho dovuto rileggere la storia nell’altra classe, per accorgermi che il lupo, nella sua furiosa ricerca dei capretti, distrugge il lavandino e fa a pezzi la coperta. Lui, che aveva ascoltato molto attentamente, lo sapeva ben prima di me: non vale forse come prova di comprensione, questa, ben più di altrettanti test a crocette?).
Così mi chiedo, ancora una volta: quanto raccontano i disegni, prima e più ancora delle frasi scritte “come sei capace”?

Capretti superstiti accompagnati dal numero 1

piante di fagioli talmente magiche, e invasive, da uscire dal margine della pagina e salire davvero fino al cielo, 

orchi dall’aria piratesca



 streghe brutte e cattive



A proposito di fiabe, ho scritto nel saggio A scuola con gli albi:
"Ho l’impressione che da anni la fiaba sia vittima, anche a livello scolastico, di una pericolosa contraddizione: da un lato, in quanto identificata come genere destinato ai più piccoli, e sulla base di ragioni di mercato, è oggetto di ogni tipo di semplificazione e banalizzazione; dall’altro, è considerata sovversiva, se non addirittura pericolosa, a causa del proprio profondo valore simbolico. […]

La didattica dell’italiano alla scuola primaria riserva alla fiaba un ruolo privilegiato, in particolare in terza; da noi, invece, come ho già scritto in precedenza i rapporti fra bambini e fiaba non sono mai stati episodici o limitati a un tempo definito, ma, al contrario, sono una costante. In poche parole, abbiamo letto fiabe ogni volta che un argomento ce lo ha permesso."
Ecco. Ho intenzione di continuare. 


giovedì 25 ottobre 2018

Gli Ughi e la maglia nuova, ovvero Tutti uguali?





Anche Gli Ughi e la maglia nuova, di Oliver Jeffers, zoolibri, ci aiutano a riflettere su uguaglianza e diversità: facile, gli Ughi sono tutti uguali, almeno fino a quando Ruperto decide di ricamarsi una maglia nuova. All’inizio, la diffidenza è davvero tanta, e Ruperto viene considerato quanto meno stravagante; è però sufficiente che il suo amico Gilberto decida di apprezzare il suo esempio, perché in breve tempo, la diversità non sia più un’eccezione, ma diventi regola, tanto da indurre Ruperto a cambiare di nuovo.

Dopo la lettura e la visione online del filmato curato dal Laboratorio di Comunicazione e Narratività dell'Università degli Studi di Trento-Rovereto diretto da Marco Dallari. 


Poi abbiamo riflettuto insieme se davvero anche noi, come gli Ughi, siamo tutti uguali. Per farlo, ho chiesto alle bambine e ai bambini di disegnare al tratto su un foglietto la cosa che più a loro piacesse, o piacesse fare (La cosa più bella della vita, ha esclamato una voce).

Ognuno ha lavorato in silenzio, e in segreto (Possiamo fare le barriere? ha chiesto un’altra voce, intendendo l’uso degli astucci a coprire il proprio lavoro. Ho risposto che le barriere proprio non mi piacciono, a scuola come nella vita.)

Poi, a turno, ognuno ha raccontato cosa avesse scelto di disegnare, e io l’ho scritto, utilizzando le precise parole dette dai bambini e dalle bambine (per questo non abbiamo sostituito fare i Lego con costruire, o pitturare con dipingere).

Ho consegnato loro la fotocopia con le loro parole, e abbiamo incollato i disegni su un foglio A3, che poi ho fotocopiato, riducendolo perché potesse essere piegato e incollato sul quaderno.

Anche questo mi pare sempre un bel modo di documentare un’attività fatta in classe che altrimenti non potrebbe essere condivisa con le famiglie.







Così, insieme alla passione per il calcio o per i cani, possiamo trovare quella per i viaggi in auto quando piove, per il canto degli animali (e non semplicemente degli uccelli), per l’osservazione delle stelle in cielo o per l’esplorazione marina.

Due frasi in particolare hanno scaldato il mio cuore di lettrice ad alta voce: in entrambe le classi, due voci hanno detto che a loro piace quando la maestra legge le storie.

 
Come incomincia:
“Gli Ughi avevano una caratteristica: erano tutti uguali!
Erano tanti, tantissimi…                   
Avevano lo stesso aspetto…avevano gli stessi pensieri…e avevano le stesse passioni.
Finché un giorno, uno di loro –si chiamava Ruperto- ebbe l’idea di ricamarsi una bella maglia nuova.
La indossava dappertutto, e ne era MOOOLTO orgoglioso!
Non tutti, però, erano d’accordo con i suoi gusti…
JEFFERS O., Gli Ughi e la maglia nuova, Zoolibri




martedì 23 ottobre 2018

Igor, o la ricerca di qualcuno che ci somigli

Ci sono temi - attenzioni, mi verrebbe da chiamarle - quotidiani, nella vita di una classe: temi per i quali sviluppare appositi progetti sarebbe svilente, se non addirittura fuorviante.

È il caso, per quanto mi riguarda, della consapevolezza dell'identità, propria e altrui, e del riconoscimento e del rispetto della diversità. Mi sembra sempre talmente naturale che essi emergano nei frangenti più disparati da ritenere inutile dedicare loro luoghi, tempi e risorse specifiche.
Per noi, a scuola, è stato così fin dall’inizio: nel raccontare se stessi, quel che si è e quel che si sa fare, così come l’incompiutezza, la competenza non ancora raggiunta, il non saper fare.
La diversità, per noi, ha avuto anche il volto (i bambini dicono la faccia, che davvero in questo caso fatico a sostituire con muso) di Igor, il sorprendente protagonista dell’albo di Francesca Dafne Vignaga edito da Edizioni Corsare.




Igor si presenta addirittura con una carta d’identità, una data di nascita, il 24 ottobre (domani sarà il suo compleanno), una residenza e un’altezza ben precise, e, per finire, due segni particolari di sicura presa su bambine e bambini: molto peloso e spesso sorridente.

Di sé sa solo il nome.
Sa fare giochi di prestigio con fiori e semi.
Sa fischiare con le foglie di acacia.
Sa arrampicarsi sugli alberi, anche su quelli molto alti.

Igor sa fare, proprio come noi, alcune cose.

A Igor piace osservare cosa fanno gli animali: gli piace, come ad Anna, guardare le formiche cariche di provviste disposte in lunghe file.


Igor da qualche giorno è pensieroso.
Possibile che non abbia mai visto nessuno che gli somigli?
Forse da qualche parte c’è, bisogna solo cercarlo.
Forse è il momento di lasciare la sua casa e partire per un viaggio.





Comincia proprio da qui, da questa ricerca di qualcuno che gli somigli, il lungo viaggio di Igor: a bordo di una barchetta fatta con una scatola di cartone, e per vela una stoffa bianca a pois neri (Sono le mutande! hanno detto alcuni maschi in entrambe le classi), proverà via via a immedesimarsi con famiglie diverse, per trovare, alla fine, la propria identità e la propria realizzazione.

Grande, questo Igor!












Qui la bella recensione di Marina Petruzio per Luuk Magazine


giovedì 18 ottobre 2018

Un orco goloso di O



Tra le più significative opportunità che lavorare con i bambini e le bambine offre, c’è sicuramente la possibilità di riflettere sulla costruzione del linguaggio e del pensiero. Ogni bambino giunge a scuola con il proprio patrimonio lessicale e linguistico, di cui non conosciamo l’origine e il percorso, ma che è compito della scuola favorire e stimolare, anche e soprattutto attraverso la riflessione, personale e condivisa, sui processi.



La lettura di L’orco che mangiava i bambini, di Fausto Gilberti, Corraini, ci ha di nuovo accompagnato nel mondo delle parole, della loro forma, del loro significato.

Nella grande pancia dell’orco, riprodotto sul cartellone (La pancia è come una O – Anche gli occhi) abbiamo inserito tutto ciò che le bambine e i bambini hanno disegnato con il pennarello al tratto: oggetti, animali, persone il cui nome iniziasse con O. E così, insieme agli immancabili ORSO, ORCO, OROLOGIO, si possono trovare ORTOPEDICO (“Sai cosa vuol dire?” “Sì, è quello che fa le vaccinazioni” “Quello è l’ortomedico!” “Orsomedico?!”) ORNITORINCO, OFFESO, OTTO, ORTO, ORLANDO, OLAF…




Come comincia:
C’era una volta un Orco brutto e cattivo. Non si lavava mai e quindi era sporco e puzzolente. Aveva molti difetti e nessun pregio.
Come tutti gli orchi famosi mangiava i bambini.
L’Orco aveva delle preferenze: gli piacevano solo i bambini golosi, golosi di zucchero, caramelle, patatine, bibite gassate, eccetera eccetera.
GILBERTI F., L’Orco che mangiava i bambini, Corraini 2012



Dal capitolo Giochiamo la grammatica, A scuola con gli albi, Topipittori 2018


Così descrive questa nostra attività Maria Polita, studiosa di letteratura per l’infanzia, blogger di Scaffale Basso e responsabile dei laboratori di Scrittura all’Università Cattolica di Brescia e Piacenza, nell’articolo L’insegnamento grammaticale nella scuola primaria attraverso l’albo illustrato, in Italiano LinguaDue,

http://riviste.unimi.it/index.php/promoitals/article/viewFile/7581/7354, rivista internazionale di linguistica italiana e educazione linguistica:



[…] A partire da una lettura ad alta voce, la maestra procede inizialmente con una riflessione fonetica, esortando i bambini a trovare parole che incomincino con il medesimo suono. Questa attività permette l’esercizio anche di abilità quali la creazione di insiemi e associazioni linguisticamente corrette. Secondariamente la maestra fa riflettere sul grafema, sempre in associazione con la storia, associandola al disegno, abbattendo la distinzione tra scrittura e disegno. “Chiediamo quindi agli alunni di disegnare l’orco il più possibile simile al protagonista della storia. Poniamo particolare attenzione agli occhi, enormi e accostati: due O con una piccolissima pupilla al centro.”

L’attività del disegno, proposta dall’insegnante, è supportata dall’illustrazione e guida al raggiungimento dell’obiettivo: le immagini in bianco e nero tratteggiano in modo originale la storia e danno la possibilità all’insegnante di proporre agli studenti la riproduzione di un’inusuale illustrazione in bianco e nero, molto affine alla scrittura. La riflessione grammaticale si approfondisce sempre nel legame iconografico, poiché come gli occhi anche la parola orco mostra due “occhi a forma di o”. Con naturalezza questa constatazione diventa occasione per ritornare ad un livello grammaticale: “Riflettiamo su una particolarità della parola ORCO: la vocale O è sia iniziale che finale. Chissà se qualche bambino saprà trovare altre parole simili: ORSO, ORTO, ORRENDO, ORNITORINCO, ORITTEROTOPO…”. In seguito la o diventerà la pancia dell’orco che contiene le diverse parole: ancora una volta il disegno si trasforma da attività marginale a strumento essenziale per la comprensione e la rielaborazione fonetica. Il rinforzo grammaticale diventa, coerentemente con la storia, uno sviluppo narrativo e i bambini sono chiamati a produrre un menù per l’orco e un proprio menù, coinvolgendo quindi anche l’abilità di produzione del testo.

Qui il post di cinque anni fa.