Quando penso ai miei
bambini li immagino mentre giocano, disegnano, leggono o scrivono. Mentre leggono per puro
piacere, ovvio, non per rispondere a delle domande, crocettando qui e là la
risposta giusta, non per dimostrare a maestri e ministeri di aver compreso tutto (concordanze,
significati espliciti e impliciti, ortografia e grammatica) ma perché leggere è
bello, divertente, perché chi legge vive mille vite, e forse impara a vivere meglio anche la propria.
E poi li immagino
scrivere: non a riempire schede su schede con CU/QU/CQU O SCE/SCI/SCIE, o con l’H
da mettere o togliere, per poi dimenticarsene un istante dopo. Li immagino scrivere su un
quaderno un po’ rabberciato e forse sporco di cioccolato o succo di frutta, con
sabbia fra le pagine o fili d’erba e fiori sparsi qua e là. O meglio ancora, su
fogli piegati, tagliati e incollati (a volte con lo scotch) a formare dei
minuscoli, inimitabili libretti, copie uniche preziosissime da riguardare fra
qualche anno con tenerezza e qualche sorriso.
Li immagino così, dunque:
e penso a quel che si perdono le prove Invalsi, che pensano di poter
fotografare la scuola italiana dimenticando la scrittura creativa, la
produzione spontanea e personale, la lettura come regalo. Penso che questi test possano forse essere una fotografia reale di alcune competenze più o meno raggiunte: reale, sì, ma parziale, come se di un volto inquadrassimo solo l’orecchio,
o il mento, pretendendo da quel particolare di leggerne tutto l’insieme.
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