martedì 3 dicembre 2019

In gruppo è meglio! ovvero Riflessioni a margine di una verifica

Covo da tempo un grosso cruccio: non essere riuscita a trasmettere appieno, alle mie ragazze e ai miei ragazzi ormai grandi, l’attenzione, la cura e l’amore per l’ortografia.
Così, con queste e questi ancora piccoli, cerco in tutti i modi di consolidare un’acquisizione che mi sembra tanto più importante proprio di questi tempi, in cui la sciatteria e la noncuranza nello scrivere (così come nella comunicazione orale) appaiono ogni giorno più evidenti e preoccupanti.
Stiamo ripassando i suoni duri e dolci di C e G. Insistiamo a lungo sul corretto utilizzo dell’H.
Propongo a bambine e bambini diverse attività, tra cui il lavoro a piccoli gruppi: su un semplice foglio A4, diviso in 8 colonne, dovranno scrivere nel tempo dato (20 minuti) quante più parole possibili a seconda delle diverse difficoltà ortografiche.


 
Al termine, raccolgo i fogli e, con l’aiuto di Chiara, la mia collega iperteconologica, realizzo la scheda riassuntiva, contenente tutte le parole scritte dai diversi gruppi: la chiamo In gruppo è meglio!, a sottolineare, ancora una volta, l’importanza e l’efficacia della collaborazione in un’attività dove ognuno fa la propria parte, con attenzione, impegno e cura. 
Assegno la lettura attenta della scheda come unico compito a casa per il fine settimana.

La verifica, svolta ieri in entrambe le classi, ha avuto una durata di 30 minuti, durante i quali le bambine e i bambini hanno cercato di ricordare il maggior numero possibile di parole adeguate da inserire nelle rispettive colonne. Il numero massimo di parole corrette è stato 50, il numero minimo 10. In questa verifica ho valutato quindi il numero di parole scritte nel tempo assegnato. La correttezza ortografica (in particolare l’utilizzo di maiuscole e doppie) avrà una valutazione a parte.



Infine ho raccolto le mie riflessioni e le ho condivise con le famiglie: un tentativo per permettere loro di comprendere appieno le scelte dell’insegnante e iniziare una prima riflessione con i figli circa i risultati del proprio lavoro.







venerdì 29 novembre 2019

Cosa c'è nella tua valigia?


Un giorno, nelle scorse settimane, ho letto, chissà dove: I bambini non sono più capaci di empatia.

Ora. A parte che, a me, le affermazioni tanto lapidarie quanto generiche generano sempre un enorme fastidio, mi chiedo: quali bambini? Non ho letto l’articolo, ero come sempre di corsa, e ora probabilmente non sarei neppure in grado di ritrovarlo.

Però, poi, sono tornata in classe, e ho letto ai miei Cosa c’è nella tua valigia?, di Chris-Naylor-Ballesteros, Terre di mezzo. E tutto si è capovolto.




I bambini e le bambine, forse non tutti, sicuramente molti, sono ancora capaci di empatia: sobbalzano all’idea che la volpe si faccia dare una pietra per rompere la valigia dello strano animale (Non può! Non è sua!), immaginano l’infelicità di chi sta per scoprire che ciò che era riuscito a trarre in salvo è ormai perduto, sorridono felici all’insperato finale (buonista? Probabile. Ma non ci importa, proprio per nulla).

E quando ho chiesto loro di scrivere a cosa avevano pensato mentre io leggevo, alcune frasi mi hanno stupito: 

Sono stati cattivi a rompere la valigia. Sono stati bravi a costruire la casa.

Mi ha fatto provare tristezza e felicità nello stesso momento.

Mi è piaciuto che il coniglio non voleva rompere la valigia.

Non era giusto che loro avevano rotto la valigia e poi [lo strano animale] aveva detto la verità ma quando rompi una cosa devi chiedere scusa.

Gli animali non credevano in lui.

Invece era vero che c’era la tazza e poi gli hanno spaccato tutto ma dopo hanno fatto amicizia e hanno sistemato il disastro e dopo hanno comprato altre tazze comunque la volpe è diventata amica e anche quello strano animale.

Che la volpe era un bullo. L’uccello era con la volpe. Lo straniero rimase a bocca aperta e avevano pitturato la casa.

Quando ti trasferisci in altri posti ci sono cose nuove forse ti emozioni o forse ti spaventi un po’. Ti ci devi abituare ti senti un po’ triste quando lasci la tua casa. Sentirai la mancanza della tua casa. Troverai nuovi amici.





Così, sull’onda (è proprio il caso di dirlo) delle riflessioni scritte da ciascuno, il giorno dopo ho chiesto di scrivere, questa volta sul proprio quaderno, cosa avrebbero portato in valigia, fossero dovuti partire per un viaggio.

E, ancora una volta, alcune pagine mi hanno mostrato che c’è speranza, almeno finché lasciamo fare ai bambini:








Come incomincia:

Un giorno arrivò uno strano animale, sembrava coperto di polvere, stanco, triste e spaventato.
Trascinava una grossa valigia.

-Ehi, ciao! Cosa c’è nella tua valigia?
-Nella mia valigia? Be’, c’è una tazza da tè.

-Una tazza da tè?
-È una valigia bella grande per una tazza così piccola!
-Sì, hai ragione. Ma ci sono anche un tavolo per appoggiare la tazza, e una sedia di legno per me, così posso sedermi.


 

-Ci sono un tavolo e una sedia nella valigia? Impossibile!
-Be’, è la sua valigia.
-Ma un tavolo e una sedia? Sul serio?
-Sì. E c’è anche una capanna di legno con una piccola cucina, dove preparo il tè. È casa mia.

Chris Naylor-Ballesteros, Cosa c’è nella tua valigia?, Terre di mezzo

martedì 26 novembre 2019

La gigantesca piccola cosa


Ci sono libri che a volte ritornano, a distanza di mesi o di anni, e suscitano riflessioni profonde nelle bambine e nei bambini.

Leggo loro La gigantesca piccola cosa, un albo di grande formato scritto e illustrato da Beatrice Alemagna per Donzelli.





Molti, in entrambe le classi, mi dicono: “Ce l’hai già letto” e io mi chiedo se sia davvero così. 
Chissà: non riesco proprio a ricordarlo.
(Poi, a casa, cercherò nel blog, e scoprirò che sì, davvero l'ho già letto in classe, solo pochi mesi fa).

In ogni caso, dico loro che non ha grande importanza: i libri si possono rileggere.
Seguono, assorti, la lettura delle brevi didascalie che accompagnano le doppie pagine illustrate: mi chiedono cosa significhi nostalgia, e uno di loro lo spiega ai compagni.




Come già in passato, copro l’ultima parola del libro, e chiedo loro quale sarà.

Una bambina risponde: “Felicità”.
Mi stupisco, un po’. 
Lei mi dice: “Forse me l’hanno già letto”.

In effetti è così: l'avevo già letto, e mi chiedo se abbia risposto la sua notevole memoria (nessun altro ricordava il finale) o la sua sensibilità, quella capacità, già evidentissima in lei, di andare in profondità, di cogliere il cuore, l’anima delle cose.

Mi resterà il dubbio. E lo coltiverò come un germoglio.









Che cos’è la felicità?

La felicità è una cosa che ci fa cambiare umore

La felicità è quando giochi con un amico a un gioco che ti piace

La felicità è un amico che ti sta molto a cuore

La felicità è una cosa che viene da dentro

È una cosa che quando sei triste, dopo un po’ di tempo ti viene la felicità

Se tu sei vicino a un amico, non ti viene la tristezza, ma ti viene di essere felice

La felicità è un volto sorridente

Il sole

È una cosa bellissima che va fino al cielo Riki

Il sistema solare, perché noi viviamo sulla Terra, e gira intorno al sole, e gira su se stessa 24 ore








sabato 16 novembre 2019

La misura della fatica, e L'Isola Schifosa


La misura della fatica di questi primi due mesi di scuola la dà il numero di post (9) su Apedario dal 12 settembre ad oggi.

E se è vero che mi ero ripromessa di scrivere meno, e meglio, è altrettanto vero che, in questi due mesi, di cose da raccontare ce ne sarebbero state moltissime: perché in classe, con le bambine e i bambini, siamo stati bene, ci siamo ritrovati e ri-conosciuti, abbiamo dato voce ai genitori, abbiamo scoperto chi siamo e cosa pensano gli altri di noi, abbiamo letto albi imperdibili e continuato a dirci parole belle e a darci abbracci colmi d’affetto. Abbiamo scritto, disegnato, discusso e raccontato, corso e giocato, mangiato e festeggiato. 


La fatica non è in classe, no.

La fatica è quella tutt’intorno, e permea ogni cosa.

Non ho alcuna voglia di stilarne un elenco: ognuno ha le proprie, e le sente tutte, sulla pelle e dentro la testa. Non è questo che mi preme.


Mi preme dire invece che ogni giorno le bambine e i bambini chiedono che io legga. Spesso chiedono anche: Ce lo rileggi?

Che il prestito bibliotecario riscuote sempre un gran successo, e chi dimentica il libro a casa e non può prenderne uno nuovo ha spesso quell’aria smarrita che mi mette voglia di sovvertire la regola (ma non si può); e ormai capita che si porti a casa il libro nuovo non solo il venerdì, ma anche in settimana, se si è già finito quello prima.

Che ci sono libri capaci di spezzare ogni resistenza, ed essere ancora una volta ben oltre i progetti e le giornate dedicate. Provate a leggere L’Isola Schifosa di William Steig, Rizzoli: mi direte poi se davvero serve la giornata della gentilezza.





Perché hai un bel ripetere che l’espressione Che schifo! è davvero una di quelle che proprio non vuoi sentire, e che, almeno a scuola, dobbiamo provare a trovare delle valide alternative.

Ma non c’è nulla di più schifoso della cattiveria gratuita, e del goderne. E un piccolo fiore può segnare l’inizio del cambiamento.

Un testo magnifico, ricco di parole che fanno strabuzzare gli occhi e regalano alla lettura ad alta voce una musicalità, un ritmo impareggiabili. E le tavole di Quentin Blake sono da mangiare con gli occhi.


Abbiamo realizzato un magnifico pannello, con l’Isola Schifosa e quella meravigliosa; ma naturalmente (ah, la stanchezza!) ho scordato di fotografarlo.

domenica 27 ottobre 2019

Che cos'è un amico?


C’è almeno un motivo per cui a tutte le bambine e a tutti i bambini piace venire a scuola: gli amici.

Così ho scelto un libro che non avevo mai letto in classe, neppure nel ciclo precedente, Che cos’è un amico?, di Chiara Cariminati e Pia Valentinis, Rrose Selavy.




Un testo che si rivolge direttamente ai più piccoli, e lo fa facendo scattare in loro un immediato processo di identificazione con il pulcino neonato (e quanti genitori somigliano alla gallina, che a domanda risponde sbrigativamente: “Un amico è un amico”? D’altra parte, come scrive A., la gallina ha un’urgenza).




Il pulcino, quindi, chiede a molti animali che popolano la fattoria e i territori limitrofi, e ognuno gli regala l’oggetto della propria similitudine: una conchiglia vuota, un mucchio di terra morbida, un cespuglio di cerfoglio, un gomitolo di lana, una pozza d’acqua limpida, un sasso di sale, una piuma.

Purtroppo, nessuno di questi oggetti si rivela un buon amico con cui giocare. Sarà solo dall’incontro con un piccolo anatroccolo, anch’esso appena venuto al mondo, che gli oggetti ritroveranno il senso dato loro da ogni animale, tanto da far pensare al pulcino, che prima non era sicuro di aver capito bene, che in fondo avessero tutti ragione.

Una lingua magnifica, quella della Carminati, che scrive poesia anche nella prosa, che permette anche ai più piccoli di esplorare le figure poetiche creandone di proprie:






 Un amico è come un fiore perché nasce come noi e poi muore come noi



Un amico è come un frutto sull’albero perché sta crescendo



Gli amici sono dei fuochi d’artificio scoppiettanti di gioia che illuminano il buio



E permette alla maestra di unirle, e di dare forma a quella che è una nuova poesia collettiva delle due classi:



Un amico è come un fiore

da innaffiare così cresce meglio.

Ha bisogno di cure

perché nasce, cresce e poi muore,

ti sta sempre accanto e ti fa compagnia.



Un amico è come un ciuffo d’erba

che ti accarezza la faccia.

Un amico è come un frutto sull’albero

perché sta crescendo.

Un amico è come una pesca

perché è dolce.



Un amico è come una foglia

che cade dal cielo

e ti accarezza.

Un amico è un albero che ti abbraccia.

Un amico è un sole che ti riscalda.



Un amico è come lo zucchero filato

molto dolce e ti avvolge

 in un cuore di zucchero.



Gli amici sono fuochi d’artificio

scoppiettanti di gioia

illuminano il buio.



Un amico è un tesoro prezioso.



E poi c’è la prova di ascolto, e la lettura animata a interpretare il personaggio preferito, il disegno, l’idea di una bambina di mettere in scena il testo per le altre classi.

Chissà…



mercoledì 16 ottobre 2019

Prima di tutto, figli


 
Antonio è tante cose, ma, prima di tutto, è figlio.

Così, da quando Antonio è uscito, desideravo coinvolgere i genitori nel racconto dei propri figli, dare loro la possibilità di mostrarceli attraverso uno sguardo altro dal nostro: lo sguardo di chi per primi li ha pensati, voluti, amati.

Avevo però una preoccupazione, che riguardava in particolare le famiglie provenienti da altri Paesi: quanto sarebbe costato loro esprimere in una lingua diversa da quella materna tutto ciò che avrebbero desiderato raccontare dei propri figli?

Forse la soluzione è stata, semplicemente, il tempo dell’attesa: l’attesa che i loro figli padroneggiassero la lingua italiana e la scrittura, e in alcuni casi potessero farsi tramite tra loro e la scuola. Quante volte è già successo?




Non una bambina, non un bambino è arrivato a scuola senza il compito svolto; tutti si sono alzati e, a turno, hanno letto le parole che mamma, papà o entrambi avevano pensato e scritto per loro. E mentre leggevano, ai compagni e ai maestri, annuivano, sorridevano e ridevano; talvolta, addirittura, dissentivano.

Hanno avuto la possibilità, ancora una volta, di parlare di sé; ma se prima l’avevano fatto in prima persona, scrivendo uno tra i primi testi su traccia, in questo caso hanno letteralmente dato voce ai loro genitori.








mercoledì 9 ottobre 2019

Uno come Antonio, ma anche Uno/Una come...




Uno come Antonio, di Susanna Mattiangeli e Maria Chiara Di Giorgio, Il castoro, è uno di quei libri che ho letto tantissimo – oserei dire sempre – negli ultimi mesi, nelle occasioni di incontro con i colleghi, gli studenti di Scienze della Formazione, gli appassionati di albi illustrati: chi c’era lo sa.

Lo amo tanto, da tempo; tanto da averne scritto, a poche settimane dall’uscita, proprio qui, sul blog. È stato, credo, l’ultimo Mercoledì al cubo con le Briciole di Passpartu e Maria Polita, di Scaffale Basso. E forse non avremmo potuto concludere meglio quell’avventura insieme.

Mi accorgo, nella lettura agli adulti, di leggerlo con un trasporto particolare, soprattutto nella sua pagina per me più impegnativa:


Però basta voltare pagina

ed ecco Antonio che ascolta la lezione.

A scuola è un alunno e deve stare attento

deve stare attento e più ci pensa e meno sta attento.

Se si distrae troppo diventa un viaggiatore dello spazio

che vede dall’alto la sua città, la sua scuola

la sua classe e anche se stesso,

un piccolo terrestre che viene sgridato dalla maestra

perché non ascolta la lezione sui primi abitanti

del suo pianeta.

Come si può restare indifferenti a un passaggio come questo?
Come può un insegnante (con o senza apostrofo, naturalmente) non interrogarsi sugli almeno due o tre nomi che potrebbe agevolmente sostituire – e l’ha già fatto, col pensiero – ad Antonio, mentre legge?
Come può non rammaricarsi di quelli che quotidianamente perde, per pochi o molti minuti, o che non è riuscita a catturare, per gli svariati, infiniti motivi di cui è colma la mente di un bambino?

Leggo sempre agli adulti Uno come Antonio insieme a Stavo pensando…di Sandol Stoddard e Igor Chermayeff, nella magnifica traduzione di Bruno Tognolini per Topipittori. Mi sembra che insieme siano insuperabili.

E invece ieri ho letto Uno come Antonio per la prima volta a dei bambini e a delle bambine. 
Ai miei bambini e alle mie bambine.

E in entrambe le classi, me l’hanno subito richiesto, un’altra volta.
E poi l’ho letto una terza. Mentre disegnavano, e scrivevano.

Perché il più scaltro, quello che ormai anticipa ogni mia mossa (Mi leggi nella mente, gli ho detto oggi. E lui rideva felice) l’aveva già capito: A sinistra facciamo Uno come Antonio, e a destra Uno come… e mettiamo il nostro nome).

Ah, i bambini e le bambine!