Non ricordo, invece, come io sia arrivata a questa lettera; probabilmente, sempre grazie a lei.
Se così non fosse, ringrazio chi mi ci ha accompagnato.
E, in questi ultimi giorni di scuola, penso. A volte mi preoccupo; altre, per fortuna più spesso, sorrido.
Lettera aperta ai professori di Lettere
Davide Rondoni
Educazione
2007. La prima emergenza
Più che una
lettera, questa è una supplica. O qualcosa dove l’invettiva, la supplica e il
silenzio si rincorrono in una strano, definitivo investimento. Vi dico: siete
dei monaci. E dei guerrieri. Non tradite pure voi, in questo generale
tradimento di chierici e di giornalisti, di “esperti” di comunicazione e di
editori o agenzie di eventi culturali… Siete monaci e guerrieri a custodia e a
incremento di un bene prezioso, che nessuno quasi più comprende. O di cui molti
parlano ma già così incartapecoriti e in naftalina di retorica o di buone
intenzioni… La chiamano: letteratura. Ma non è altro che vita continuamente
ridestata della lingua, della prima e umile e ricca relazione di cui la natura
ci ha dotato. È, attraverso la lingua, vita che si ridesta alla vita, cioè alla
coscienza. Siete monaci e guerrieri della vita della lingua, che è come dire
vita del pensiero - o della ragione, se vogliamo ridirlo. Perché cosa è la
letteratura? Pila di libri che intasa le librerie? Classifica in fondo al
Corriere? O allegato de la Repubblica? O biblioteca delle biblioteche? O ultima
delle mode? Un elenco di classici opposto a un altro? No, la letteratura o come
la volete chiamare quella galleria di voci, è un’esperienza. Siete, che lo
vogliate o no, sul fronte di una guerra che ha in palio la sparizione del
fenomeno chiamato poesia, cioè una guerra sulla radice stessa della esperienza
linguistica nel suo aspetto di corrispondenza tentata con il mondo, di risposta
al segreto che delle cose colpisce e invita. Non la sparizione, no. Perché non
sparirà mai, essendo tra i fenomeni umani primari. Come la fame, come il sesso,
e il lutto. Ma la sua riduzione per fraintendimento. La sua anestesia. La
collocazione tra i noiosi intrattenimenti, ovvero tra i paradossi inutili ai
più. Invece, la vita ci chiama, fin da piccoli, a non usare solo i nomi
dell’anagrafe. Non bastano le parole dell’anagrafe stabilita dalle leggi o
quella spesso più tetra e misera imposta (e con che formidabili strumenti)
dall’uso. All’amata, ai figli inventiamo soprannomi per provare a dire quel che
di loro, in tenerezza e timore, ci parla. Dante diceva che a volte si usano le
parole per dire quello che non si sa. La lingua aperta e tesa al segreto del
mondo è l’inizio e per così dire il concerto della letteratura. Al cuore, alla
ragione non bastano le parole spente che ci mettono in bocca. Se il cuore e la
ragione sono ancora vivi. Se ascoltano il mondo. Se ne ricevono il colpo di
presenza. Siete monaci, e guerrieri. Mal pagati. Messi a lavorare talvolta in
condizioni spaventose. Tra editori e, spesso, dirigenti che non capiscono
niente di tutto questo. In ambiti dove tutto sembra concorrere a mortificare la
vita, e dunque anche la lingua. Tra burocrazia, pruriti che sembrano
pestilenze, e sciabordio morto dell’abitudine. Tentati di far come tutti,
parandosi dietro a questioni sindacali o familiari. Parandosi dietro alla
difficoltà. Ma il monaco e il guerriero abitano la difficoltà. Non fanno solo
un mestiere. Ne fanno centomila per l’esito della buona battaglia. Se avete
difficoltà economiche andate a rubare, fate gli unici espropri che avrebbe
senso fare. O fate cooperative, leghe di insegnanti di Lettere, mutue, fate la
questua. Dovrebbero pagarvi a miliardi, altro che i grandi manager… Ma tanto
l’unica vostra dignità professionale è data dall’aver fatto tremare o sgranare
gli occhi a qualcuno leggendo la pagina di un capolavoro come se si stesse
scrivendo ora lì con voi, collaborando a scriverla la vostra vita intera. Non è
questione di soldi. E non importa se coraggiosi o coltissimi, o se tremanti o
spavaldi. Il fatto è che siete lì, ora, in questa specie di trincea, in questo
combattimento corpo a corpo. È nelle vostre mani - nelle vostre più che in
altre - la responsabilità di non far morire il dolce suono e il movimento della
nostra lingua italiana. Lingua di poesia innanzitutto, come avviene in
Francesco, in Jacopone, poi in Dante, in Petrarca, su fino a Leopardi, al leone
Ungaretti e ai tanti, tantissimi che hanno nelle loro diverse misure e respiri
tentato rilievo e giustizia alle parole. Trattandole per quel che sono:
strumenti con cui inseguire il vero e indicarlo, come un Giovanni Battista
clamante nel deserto, o come il sobbalzo nel ventre di Elisabetta. Viviamo in
un’epoca di parole spente. In un’inflazione di parole che vengono addosso a
generazioni che non è vero che leggon poco; leggono un sacco - dagli sms agli
spot, ai giornali dati gratis nei metro - ma tutte cose in cui le parole sono
morte. Lettura in cui non c’è vita. Dove non si chiede niente a chi legge, solo
i suoi soldi, o l’opinione, o il voto. Lasciate perdere i programmi, le
scadenze, i disegni analitico-storici… Fateli per quel minimo indispensabile.
Che è vicino allo zero. Il disegno storico della letteratura a che serve a un
ragazzo, se non si impara il gusto e lo scandalo della letteratura? Alzatevi in
piedi, piuttosto, leggete. Fate teatro di questa vita della lingua quando in
essa giunge il colpo della vita. Questo raddoppiamento della vita. Fate come
avete visto fare davanti a voi da chi ha letto grandi pagine di letteratura
investendole di se stesso, della propria domanda di felicità e scoprendo il
segreto del mondo. Fate così, come i monaci in piedi, e i guerrieri. Perché da
ovunque il nulla occhieggia. E cala sui viottoli o sulle autostrade della
vostra possibile pigrizia, della vostra inappellabile buona coscienza, del
vostro malinteso senso del dovere. Il destino mi ha assegnato una piccola parte
nello scrivere versi, libri, miei e d’altri. E ora questo libercolo di letture
condivise. A voi la parte di indicare e condividere la parola accesa della
letteratura. Non lasciate si spenga, in occhi abbagliati di noia dalle scritte
di rèclame. Il mio monastero è il vostro, e medesimo il campo minato. Scusate,
anzi non scusate, il disturbo.
Davide Rondoni
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