martedì 11 giugno 2013

Di cosa parliamo quando parliamo di integrazione?

Ho un'urgenza che non può attendere; è una sorta di groppo, di magone, che posso sfogare qui, e che voglio condividere. Perchè ho bisogno di sapere che altri la pensano come me.
Mia figlia minore ha tredici anni, ed è iscritta alla scuola secondaria di primo grado di un paese vicino, in cui anch'io insegno, nella scuola primaria.
Non l'ho fatto solo, e neppure principalmente, per questioni organizzative; ho scelto una scuola statale che garantisse, oltre all'apprendimento, un'attenzione alla persona, alle dinamiche relazionali, alla socializzazione, all'accoglienza...
Oggi, con alcune amiche, madri di coetanei di mia figlia, sono andata a leggere i quadri di ammissione alla classe successiva o agli esami della scuola del paese in cui vivo, che ho scelto di non far frequentare a mia figlia. Su quattro prime, cinque bocciati (l'anno scorso mi pare fossero otto), nelle classi seconde altri tre o quattro, più un paio non ammessi all'esame. Di questi, la stragrande maggioranza di origine extracomunitaria.
L'origine del mio magone, della mia frustrazione, del mio disagio è tutto qui. Si fa un gran parlare di BES (bisogni educativi speciali), di programmazioni differenziate, di obiettivi minimi...e poi il risultato è questo: una scuola che ferma, che non fa crescere, che non accoglie, che mina le basi della fiducia in se stessi e dell'autostima, che delega ad altri (colleghi, servizi sociali...) quello che non riesce a fare, ciò su cui non riesce a intervenire... Una scuola che pretende la padronanza di una lingua che non è la lingua madre, da parte di ragazzi spesso nati altrove, e che già faticano ad integrarsi nel tessuto sociale, rimanendone sempre più ai margini, se non del tutto esclusi... Io non la voglio, una scuola così, e mi fa male pensare che ancora ci sia.
Io ho potuto scegliere una scuola diversa: e chi non può farlo?
Mi fa male pensare che il futuro di questi ragazzini rischi di franare per colpa nostra:la loro vita è un'esasperante corsa a ostacoli, in cui ogni volta noi, gli adulti che dovrebbero permettere loro di entrare più agevolmente in questo mondo sconosciuto, alziamo l'asticella.
A novembre della terza elementare arrivò nella nostra classe una ragazzina pakistana: aveva un anno in più dei compagni, ma con i colleghi decidemmo di inserirla da noi.
Dopo qualche mese, un giorno le dissi: "Sai, siamo veramente orgogliose di quanto sei brava!" e lei mi rispose, con tono chiaramente risentito: "Ma io, in Pakistan, ero prima di mia classe!".
Mi sono vergognata della mia frase: che lei fosse così brava mi pareva un'eccezione, mentre forse potrebbe essere la regola.
 

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